La CGIL ha concretizzato una parte della propria strategia contro le politiche del lavoro che hanno caratterizzato l’ultimo decennio, depositando presso la Suprema Corte di cassazione 4 quesiti referendari che sono passati alla cronaca generalista come “referendum abrogativi del Jobs Act”.
A ogni modo, i 4 quesiti oggetto del referendum sono molto diversi fra loro e impattano su materie distinte ed eterogenee.
Essi, infatti, attengono:
– all’abrogazione del sistema rimediale contro l’illegittimità del licenziamento per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, meglio noto come contratto a tutele crescenti;
– al superamento dell’attuale disciplina del contratto a termine come recentemente modificata dal Governo Meloni, foriero, a dire della sigla sindacale proponente, di precarietà.
La visione dei promotori dell’iniziativa referendaria mira ad accrescere la stabilità dell’occupazione: visione ben compendiata nelle parole del Segretario generale della confederazione sindacale promotrice, secondo cui, se si vuole “una legislazione del lavoro che contrasti la precarietà, bisogna intervenire sulle forme di lavoro assurde messe in campo in questi anni”.
Lungi da valutazioni di ordine politico, le considerazioni che seguono vogliono rappresentare un contributo tecnico ai temi che i referendum portano al centro del dibattito.
La prima questione è di ordine metodologico. Sotto questo profilo, anche immaginando di condividere, con tutte le riserve del caso, l’idea che le proposte abrogative tendano effettivamente a creare lavoro di qualità, e pur condividendo la necessità di un intervento riformatore, quantomeno, sulla materia del licenziamento, dopo gli interventi demolitori della Corte costituzionale, certamente non si può concordare con la strategia dei referendum, che prevede nella sostanza di riportare indietro “le lancette dell’orologio”. Questa operazione “nostalgica” non tiene a mente i mutamenti della società, del mercato del lavoro, la necessità di una nuova sintesi tra flessibilità del lavoro – anche autonomo – conciliazione dei tempi e welfare.
Attenendoci all’aspetto strettamente tecnico, il primo quesito mira ad abrogare il contratto a tutele crescenti, individuato come figura emblematica di un processo, iniziato con la legge Fornero del 2012, che ha portato al superamento del tabù per il quale solo la reintegrazione sarebbe in grado di offrire un’adeguata tutela in caso di licenziamento illegittimo; processo poi perseguito con ancora maggior rigore dal Governo Renzi, tramite il contratto a tutele crescenti.
Anche solo queste considerazioni sarebbero sufficienti a definire anacronistiche e fuori dal tempo le proposte referendarie.
Il tema non è quello di escludere che l’attuale assetto normativo possa essere oggetto di una riforma – anche profonda e radicale – , ma di avere consapevolezza che la strada non è certamente quella di ritornare all’assetto rimediale del 1970. In questo ambito, per citare la Corte costituzione, occorre intervenire su un quadro normativo ormai stratificato.
Nello stesso solco si colloca la proposta di ritornare ad un contratto a termine sotto l’egida di causali “meglio se stringenti” come quelle che avevano caratterizzate il decreto Dignità.
Su questo punto valgano alcune considerazioni di carattere generale. In primo luogo, non è dimostrato che rendere più stringenti i limiti di utilizzo generi un maggiore stabilità o un numero più consistente di contratti a tempo indeterminato. È, invece, facilmente verificabile che le aziende non si siano assunte il rischio di utilizzare causali così stringenti come quelle introdotte con il decreto Dignità, che in assenza di sensibili incrementi di contratti a tempo indeterminato sta a significare che esiste una quota di opportunità di lavoro non colte.
Sotto questo aspetto, nella visione dei proponenti, non trovano spazio alcuno i dati positivi circa l’occupazione che meritano di essere approfonditi per comprendere se essi non siano in parte anche conseguenti alla maggiore flessibilità dell’utilizzo del contratto a tempo determinato. Anche in questo caso non si tratta di possedere verità preconcette, ma di analizzare i dati e comprendere se ed in che misura un determinato assetto normativo sia di stimolo o meno all’occupazione e di che tipo di occupazione si tratti.
I referendum, così come formulati, impongono una valutazione più profonda – che prescinde dal merito in senso stretto – , circa il fatto che una parte del sindacato, con questa iniziativa, sta ancora una volta abdicando al suo ruolo propositivo, per “ripescare dall’armadio dei ricordi” vecchie bandiere, e, quel che maggiormente preoccupa, rinunciando a proporsi con un approccio nuovo, che non coincide necessariamente con una riduzione delle tutele. La domanda di fondo è: “perché impegnarsi ad abrogare e non essere propositivi di nuove idee per tutelare i lavoratori illegittimamente licenziati?”.
Per rispondere a questo quesito occorre, però, muovere dall’assunto per cui non è immaginabile che un sindacato con la tradizione e la storia di quella promotrice i quesiti referendari non abbia un’idea diversa su questioni cruciali, se non un colpo di spugna sugli ultimi 10 anni di produzione legislativa, senza tenere in conto l’evoluzione del contesto imprenditoriale, sociale, e non da ultimo, giudiziario, che ha condotto al superamento di un determinato assetto di tutele che era concepito per una realtà non più attuale.
Il rischio dell’approccio referendario è quello di rimanere distanti da un mondo che sta cambiando, e forse anche dagli interessi degli stessi lavoratori che si vorrebbero tutelare.
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