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Il difficile punto di equilibrio tra l’effettività della tutela giurisdizionale e l’inesauribilità del potere amministrativo (nota a T.A.R. Abruzzo – Pescara, 1 marzo 2023 n. 107)

di Rocco Parisi 

Sommario: 1. Premessa – 2. La vicenda contenziosa – 3. La decisione del Tar – 4. Primi spunti critici sul decisum – 5. Giudicato e riedizione del potere: tra effettività della tutela ed inesauribilità del potere amministrativo – 6. Le tesi sul tappeto: la limitazione della preclusione al solo dedotto – 7. Segue: le preclusioni procedimentali ed il «one shot puro» – 8. Segue: l’ipotesi del «one shottemperato» – 9. Riflessioni conclusive sulle possibili evoluzioni del «one shot temperato».

1. Premessa

La sentenza in oggetto affronta, ancora una volta, il tema della riedizione del potere a seguito di un giudicato di annullamento, offrendo l’occasione per alcuni spunti di riflessione[1]

La sentenza, muovendo dai più recenti approdi giurisprudenziali, aderisce al principio del «one shot temperato», secondo cui l’Amministrazione che abbia subìto l’annullamento di un proprio atto ha il potere di rinnovarlo, ma per una sola volta, dovendo riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza poter in seguito tornare a decidere sfavorevolmente, per una terza volta, neppure in relazione a profili non ancora esaminati (CGA, 597/2022; Cons. St., 2378/2020; Cons. St. 3480/2022). 

2. La vicenda contenziosa

Nell’ambito di una procedura di affidamento ad evidenza pubblica, l’unica impresa partecipante viene esclusa dalla gara, in ragione della presunta carenza di alcuni dei requisiti di ammissione richiesti dal bando e di talune carenze nelle dichiarazioni relative alla documentazione amministrativa. 

Impugnata dinanzi al Tar Pescara detta esclusione, questo la annulla (con sentenza n. 435/2021), sulla scorta delle riscontrate lacunosità della lex specialis, disponendo espressamente non l’ammissione dell’impresa ricorrente alla procedura, come dalla stessa invocato in via principale, bensì la necessaria attivazione del soccorso istruttorio[2], ai sensi dell’art. 83 comma 9 del d.lgs. n. 50/2016 e del disciplinare di gara, in accoglimento del relativo motivo di ricorso, formulato in via subordinata. Il Tar, nella pronuncia in parola (poi passata in giudicato), si allinea a quella recente giurisprudenza, secondo la quale «di fronte ad una vistosa ambiguità o indeterminatezza nel disciplinare di gara è non solo legittimo, ma anzi doveroso il soccorso istruttorio per consentire alle concorrenti di dimostrare l’esistenza dei requisiti, esistenti al momento dell’offerta, e non emergenti dalla documentazione depositata solo per una imprecisione o incertezza nella formulazione del disciplinare, e il grave vulnus della par condicio, oltre che dello stesso corretto e imparziale agire della pubblica amministrazione, si sarebbe realizzato, al contrario, se questa non avesse irragionevolmente e formalisticamente esercitato il suo potere-dovere di soccorso istruttorio» (Cons. St., 4103/2020). 

In dichiarata esecuzione del giudicato, la stazione appaltante attiva il soccorso istruttorio nei confronti dell’impresa concorrente, estendendone però l’ambito oggettivo rispetto a quanto disposto dal Tar e giungendo ad escluderla nuovamente per ragioni differenti da quelle poste a base della sua prima esclusione e relative alla riscontrata carenza, all’esito della nuova istruttoria in soccorso, di ulteriori requisiti previsti dalla lex specialis

L’impresa insorge avverso la sua seconda esclusione, proponendo, a distanza di oltre trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento espulsivo, ricorso per l’ottemperanza della sentenza n. 435/2021, ai sensi dell’art. 112 c.p.a., instando per la declaratoria di nullità della gravata esclusione per violazione del giudicato. 

In estrema sintesi, l’impresa contesta l’estensione dell’ambito oggettivo del soccorso istruttorio, avendo l’Amministrazione richiesto, solo in sede di riedizione del potere, la comprova di ulteriori requisiti rispetto a quelli oggetto del primo giudizio e la cui presunta carenza aveva condotto alla prima esclusione (annullata dal Tar). 

Nel giudizio a quo, peraltro, lo stesso Tar aveva ritenuto inammissibile l’integrazione postuma della motivazione della prima esclusione, posta in essere dall’Amministrazione in corso di causa, ed incentrata proprio su quegli ulteriori requisiti, la cui carenza ha poi condotto alla seconda esclusione. 

Con la sentenza qui annotata, il Tar, qualificando l’azione proposta come non propriamente attinente all’esecuzione del giudicato bensì al prosieguo dell’azione amministrativa, e tenuto conto che in caso di cumulo di domande soggette a riti diversi trova applicazione quello ordinario, dispone anzitutto la conversione del rito, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a., da rito di ottemperanza a rito ordinario. Conseguentemente, rilevato che il ricorso avverso l’esclusione dalla procedura di gara è stato proposto oltre il termine decadenziale di trenta giorni, previsto dall’art. 120, comma 2, c.p.a., ne rileva la tardività, rigettandolo per irricevibilità. 

3. La decisione del Tar 

Il Tar ritiene anzitutto insussistenti i presupposti per proporre il ricorso per l’ottemperanza, atteso che dal giudicato di annullamento non sarebbe disceso un vincolo così stringente per l’Amministrazione da vincolare in modo anticipato ed unidirezionale il successivo sviluppo dell’azione amministrativa. L’effetto conformativo del giudicato, nel caso di specie, non avrebbe potuto comportare, in via diretta, l’ammissione alla gara dell’impresa ricorrente, bensì esclusivamente la regressione del procedimento allo stadio istruttorio, in cui non era ancora conclusa la fase della sua definitiva ammissione. 

Il soccorso istruttorio attivato nei confronti della concorrente ben avrebbe potuto riguardare profili differenti ed ulteriori rispetto a quelli esaminati nel giudizio a quo, potendosi quindi giungere ad una nuova esclusione, anche in ragione di tali differenti profili. 

Tale rinnovata esclusione non sarebbe affetta da nullità per violazione ed elusione del giudicato, non essendo impedito all’Amministrazione, pur a fronte del giudicato di annullamento, di adottare un nuovo provvedimento espulsivo per ragioni differenti dal primo, come avvenuto nella fattispecie. 

Il Tar aderisce dichiaratamente al principio del «one shot temperato», osservando che «il giudicato di annullamento non preclude in sede di remand all’amministrazione il potere di riesaminare funditus la questione, configurandosi un siffatto effetto preclusivo solo per l’avvenire, ossia per una terza e per le volte successive, onde evitare la reiterazione di decisioni negative a cascata sulla base di ragioni ostative che potevano essere opposte sin dal primo riesame».

Ed è qui che si rinviene quel punto di equilibrio tra le due opposte esigenze della garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva, da un lato, e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi, dall’altro.

Il Tar afferma che nel caso di specie, anche a voler ritenere applicabile il principio del «one shot puro» (di recente introdotto nell’ordinamento dall’art. 10 bis L. 241/1990 come modificato dal D.L. 76/2020, sia pure con esclusione delle procedure concorsuali, come quella in esame), comunque non sussisterebbe alcuna preclusione discendente dal giudicato, dal momento che i nuovi motivi di esclusione non preesistevano al primo provvedimento impugnato, ma scaturivano dalla successiva rinnovata istruttoria. 

In tale fase di riedizione del potere, quindi, l’attività amministrativa non sarebbe coperta dal giudicato, escludendosi di conseguenza la competenza del giudice dell’ottemperanza: avendo l’amministrazione reiterato il provvedimento di esclusione sulla base di motivi nuovi e diversi da quelli posti a fondamento della prima esclusione, sebbene afferenti alla medesima fase istruttoria, le doglianze agitate dall’impresa ricorrente sono considerate suscettibili di sindacato (solamente) in sede di impugnazione con rito ordinario, esulando dal giudizio di ottemperanza. 

Per tale ragione, il Tar converte il rito in ordinario e, rilevata la violazione del termine decadenziale per proporre il ricorso, lo rigetta per tardività. 

4. Primi spunti critici sul decisum

Al di là della questione relativa alla qualificazione della domanda[3], la sentenza si pronuncia sul rapporto tra effettività ed esercizio del potere.

Una prima notazione critica alla sentenza va rivolta alla parte in cui, pur ritenendo applicabile il principio del «one shot temperato», distonicamente prende le mosse da uno dei più rigidi corollari del principio della inesauribilità del potere (frutto – a sua volta – della più rigida concezione della separazione dei poteri), a mente del quale «solo per un numero infinito di volte» dopo ogni annullamento giurisdizionale è impedito all’amministrazione pubblica di esprimersi in modo analogo su una medesima questione.

È evidente l’inattualità di tale impostazione (che lo stesso Tar non segue), la quale, ove estremizzata, lascerebbe del tutto insoddisfatta l’esigenza di una tutela effettiva, ben potendo l’amministrazione riesaminare la vicenda un numero tendenzialmente infinito di volte, reiterando identici provvedimenti sfavorevoli, sulla scorta di differenti valutazioni. 

Ciò confligge con la concezione sostanziale dell’interesse legittimo pretensivo e con l’attuale tendenza ordinamentale ad individuare il principale oggetto del sindacato del giudice amministrativo nel rapporto (e non solo nell’atto). 

La stessa Ad. Plen. 2/2013, pur ritenendo di non poter aderire all’affermazione del divieto di ogni riedizione del potere a seguito di un giudicato sfavorevole, indirizzo «che appare contrastante con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione e non imposto dalle pur rilevanti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, come attestato dalla disciplina della materia in Paesi dell’Unione europea a noi più vicini (si pensi alla Francia ed alla Germania)», ha comunque subito aggiunto che «la riedizione del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e vincoli». Vincoli che rispecchiano il perimetro dell’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente, pur non potendo proiettarsi «l’effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni sopravvenute di riedizione di un potere, ove questo, pur prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove e non contemplate in precedenza». 

Pur ammettendo la possibilità di una differente «valutazione dei fatti», in sede di riedizione del potere, la Plenaria richiama al rispetto dell’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice, specialmente per la pubblica amministrazione, «in un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante complemento della tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale)».

La giurisprudenza successiva[4] ha precisato ulteriormente i principi espressi dalla Plenaria, affermando che l’esigenza di certezza, propria del giudicato, ossia di un assetto consolidato degli interessi coinvolti, non consenta all’amministrazione, quando essa rinnova il potere, di riconsiderare secondo una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, hanno formato oggetto di esame da parte del giudice. 

La controversia fra l’amministrazione ed il privato deve pur trovare, ad un certo punto, una soluzione definitiva. Sicché, come affermato da un orientamento via via consolidatosi[5], occorre impedire che l’amministrazione proceda più volte all’emanazione di nuovi atti, in tutto conformi alle statuizioni del giudicato, ma egualmente sfavorevoli al ricorrente, in quanto fondati su aspetti sempre nuovi del rapporto, non toccati dal giudicato. Il punto di equilibrio va determinato imponendo all’amministrazione – dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo – di esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.

5. Giudicato e riedizione del potere: tra effettività della tutela ed inesauribilità del potere amministrativo

Com’è noto, il principio di effettività della tutela assume una rilevanza fondamentale, al punto tale da assurgere a vero e proprio presupposto di validità degli stessi ordinamenti giuridici[6]

Il principio in esame esplicita l’insegnamento chiovendiano per il quale il processo deve attribuire alla parte vittoriosa «tutto quello e proprio quello» che il diritto sostanziale gli riconosce[7]. In questo senso, l’effettività della tutela rappresenta indice e misura del livello di protezione giuridica che l’ordinamento è in grado di garantire a coloro i quali si rivolgono agli organi di giustizia. 

Dunque, l’effettività afferisce all’esigenza che il sistema appronti in favore del privato rimedi processuali idonei a garantire il concreto perseguimento di ciò che è riconosciuto sul piano sostanziale. 

Con l’entrata in vigore della Costituzione, il principio di effettività si è riempito di ulteriore valenza significativa, divenendo il fulcro di tutela delle stesse libertà fondamentali sancite dai costituenti[8]. In particolare, nell’impianto costituzionale, l’art. 24 rappresenta una norma processuale in bianco, costitutiva di un piano mobile di misure di tutela[9], utile a consentire la protezione giudiziale di qualsiasi situazione giuridica soggettiva riconosciuta sul piano sostanziale. 

A livello sovranazionale, gli articoli 6 e 13 della CEDU attribuiscono un ruolo di prim’ordine al canone di effettività nella gerarchia dei diritti fondamentali, ivi comprendendovi anche il diritto ad ottenere l’esecuzione delle statuizioni giudiziali favorevoli. Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il diritto all’esecuzione dei provvedimenti giudiziali rappresenta la terza grande garanzia del giusto processo, unitamente al diritto all’accesso ad un tribunale indipendente ed imparziale ed al diritto al contraddittorio ed alla parità delle armi in giudizio. 

Il diritto d’accesso alla giustizia ed il diritto ad un equo processo sarebbero illusori se l’ordinamento giuridico di uno Stato membro acconsentisse che una decisione definitiva e vincolante restasse inefficace a danno di una parte[10].

Anche l’ordinamento dell’Unione Europea ha riconosciuto al principio in parola una rilevanza sempre crescente e, sulla scorta delle diverse disposizioni dei Trattati in materia, la Corte di Giustizia è giunta a qualificare il canone di effettività come principio generale di diritto dell’Unione[11].      

Dunque, nell’elaborazione ormai invalsa in ambito sia nazionale che europeo, il principio di effettività della tutela giurisdizionale impone al legislatore di predisporre rimedi processuali idonei a tutelare tutte le situazioni giuridiche soggettive qualificate sul piano sostanziale, di tal guisa che il titolare possa acquisire all’esito del giudizio l’esatta utilità cui ha diritto[12].

Com’è noto, il tema dell’effettività della tutela si inserisce in maniera tutt’altro che pacifica nell’ambito della giurisdizione amministrativa, in ragione, non solo della discussa attitudine del sistema di giustizia ad incidere in modo significativo sull’esercizio del potere amministrativo[13], ma anche della fisiologica limitazione oggettiva che incontra il giudicato formatosi all’esito del giudizio amministrativo. 

È noto che la dottrina amministrativa, dopo una prima fase di chiusura[14], ha riconosciuto alla sentenza del giudice amministrativo un contenuto di accertamento, ex art. 2909 c.c., idoneo a dettare una regola conformativa per l’attività amministrativa successiva. Tuttavia, siffatta regola sostanziale, in quanto chiamata a confrontarsi con il potere pubblico autoritativo, è inidonea a delineare in maniera definitiva l’assetto di interessi in gioco, rivelandosi al contrario elastica, condizionata ed incompleta[15]

In particolare, la sentenza di annullamento, soprattutto ove incida su poteri discrezionali, nel chiudere la questione sulla legittimità del provvedimento impugnato, inerente ad un mero frammento di esercizio del potere, si apre alla sua successiva riedizione, alla quale viene demandata la concreta definizione dell’assetto degli interessi in gioco, derivandone il rischio di un’esautorazione delle aspettative di tutela della parte già vittoriosa in giudizio. 

In effetti, stante l’inidoneità del giudicato di annullamento a statuire anche sul deducibile[16], non sono affatto infrequenti i casi in cui, pur a seguito della pronuncia demolitoria, l’amministrazione reitera un provvedimento di diniego, analogamente lesivo per l’interesse pretensivo del privato, sulla scorta di motivi nuovi e diversi rispetto a quelli già addotti in precedenza e sottoposti al sindacato giudiziale, sottoponendo il destinatario del (nuovo) provvedimento ad un’estenuante rincorsa impugnatoria avverso le ulteriori (e sempre rinnovate) effusioni di potere pubblico. 

Nel quadro così delineato, il giudicato di annullamento si presenta come una parentesi tra il frammento di potere già esercitato (sfociato nel provvedimento impugnato) ed il tratto di azione amministrativa successiva[17]

Di conseguenza, il canone di effettività della tutela rischierebbe di rimanere lettera vuota qualora si consentisse all’amministrazione di esercitare all’infinito il proprio potere in senso sfavorevole al ricorrente già vittorioso in giudizio, impedendogli di conseguire l’utilità sostanziale anelata. Ed in effetti non è mancato chi ha addirittura dubitato della riferibilità del principio di effettività alla giurisdizione amministrativa, rilevando che «nella normalità dei casi, la pronuncia di annullamento nulla statuirà in ordine alla spettanza del bene oggetto delle pretese del ricorrente»[18]. Infatti, «se effettività della tutela significa, per precetto costituzionale, adeguatezza della protezione giudiziaria alla natura della situazione giuridica sostanziale, ne discende che il giudizio amministrativo non può esaurirsi nella verifica dell’affermazione del ricorrente circa il potere di annullamento dell’atto […] Il processo deve tendere, quanto più è possibile, alla cognizione e statuizione autoritativa su ciò che spetta al privato e ciò che non gli spetta»[19].

6. Le tesi sul tappeto: la limitazione della preclusione al solo dedotto  

Come nel caso annotato, le maggiori criticità, soprattutto in giurisprudenza, si sono riscontrate nella puntuale definizione del perimetro oggettivo del giudicato e dei suoi effetti conformativi.

In passato, i giudici amministrativi hanno sovente optato per una maggiore salvaguardia della sfera di autonomia amministrativa (nel rispetto del principio di separazione dei poteri), minando la stabilità del giudicato. In tal senso, è stato sostenuto che a seguito di una pronuncia di annullamento l’amministrazione può, non solo reiterare il provvedimento sfavorevole sulla scorta di motivi preesistenti non sindacati dal primo giudice, ma addirittura riesaminare quelle stesse circostanze già coperte dalla sentenza. 

L’Adunanza Plenaria 2/2013, invece, ha chiaramente affermato che, pur potendo l’amministrazione valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, siano state oggetto di esame da parte del giudice, «l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione amministrativa», e comunque l’esecuzione del giudicato va effettuata nel rispetto dei principi di buon andamento, correttezza e buona fede[20]

Il giudicato, in particolare, assumerebbe una vincolatività asimmetrica nei confronti della riedizione del potere[21] – da un lato – cristallizzando i fatti accertati in giudizio[22] e – dall’altro lato – consentendo all’amministrazione il riesame delle valutazioni già sindacate dal giudice in termini (estrinseci) di non manifesta irragionevolezza. 

Tale orientamento, è stato recepito e sostenuto dalla giurisprudenza successiva, talvolta in termini restrittivi[23], ammettendosi che in sede di riedizione del potere l’amministrazione potesse dedurre a sostegno della propria decisione anche fatti preesistenti, ma non considerati dal primo giudice, nonché nuovi fatti e nuove ragioni giuridiche e nuove valutazioni, fondate sui medesimi fatti. 

In maniera ancor più esplicita, è stata rilevata l’inidoneità del giudicato amministrativo ad assurgere a regola completa e definitiva del rapporto tra privato ed amministrazione, in ragione della natura immanente ed inesauribile del potere pubblico[24]. Pur non negando l’avvenuta trasposizione dell’oggetto del giudizio amministrativo, dall’atto al rapporto, il Consiglio di Stato ha così ritenuto che la sussistenza di potere pubblico discrezionale continui inevitabilmente a condizionare la portata della regola sostanziale fissata nel giudicato, limitandone l’effetto preclusivo ai soli vizi censurati in sede di legittimità.

Come è stato condivisibilmente sostenuto[25], l’orientamento in esame tende ad attribuire al giudicato un effetto solo ripristinatorio, limitato ai vizi dedotti su cui il giudice ha deliberato, senza la corretta valorizzazione degli effetti conformativi sulla futura azione amministrativa; obbligo ripristinatorio che, dunque, non incide sui tratti liberi di potere lasciati impregiudicati dalla sentenza. 

Tale impostazione, volta a limitare l’efficacia oggettiva del giudicato al solo dedotto, è parsa eccessivamente distante dall’attuale sistema di giustizia amministrativa[26], delineato dal Codice del processo nella prospettiva di un sindacato giudiziale sempre più esteso al rapporto.  

Seguendo poi la ricostruzione operata da un’autorevole giurisprudenza[27], in ossequio ai principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo (i quali imporrebbero di rimeditare la tesi del giudicato a formazione progressiva) ed al fine di riconoscere al giudicato l’effetto di cristallizzare situazioni giuridiche resistenti alla riedizione del potere amministrativo, si delineano due tesi: «una tesi “radicale” suggerisce di rafforzare la capacità stabilizzante del giudicato amministrativo, ritenendo che esso copra non solo il dedotto ma anche il deducibile, con la conseguenza che, nel caso di giudicato di annullamento su vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi vizi, integra una violazione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione (secondo una variante, analogo vincolo deriverebbe, prima ancora che dal giudicato, dalla preclusione maturata nel corso del procedimento amministrativo); una tesi “mediana” sostiene invece che, dopo la formazione del giudicato, la pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale possa sì individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola». 

Pur non intendendo mettere in discussione i principi fissati dalle Adunanze Plenarie 2/2013 e 2/2016, la condivisibile giurisprudenza appena citata afferma chiaramente che tali statuizioni «devono trovare ulteriore svolgimento» non essendo «accettabile che la crisi di cooperazione tra amministrazione e cittadino possa risolversi in una defatigante alternanza tra procedimento e processo, senza che sia possibile addivenire ad una definizione positiva del conflitto, con grave dispendio di risorse pubbliche e private». Allorquando il vizio accertato con l’autorità del giudicato consiste nella violazione di una norma che assicura all’istante soltanto «la possibilità di conseguire il bene finale» («bene intermedio») e l’illegittimità rilevata dal giudicato demolitorio non ha determinato la privazione di un’utilità che il diritto assicurava con certezza all’istante, «resta da capire se questa “possibilità attuativa” debba necessariamente scontare l’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatta, oppure se il sistema di giustizia amministrativa sia in grado di approntare un rimedio adeguato al bisogno di tutela, rendendo concretamente tangibile l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali»[28]. A tale ultimo approdo giunge la giurisprudenza in esame, offrendo interessanti spunti di riflessione, che andrebbero adeguatamente ripresi e valorizzati, soprattutto alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa culminata con il nuovo codice del processo amministrativo. 

7. Segue: le preclusioni procedimentali ed il «one shot puro»

La prima delle tesi sopra indicate è volta ad imporre alla discrezionalità amministrativa, nella riedizione del potere, una preclusione pre-processuale, ancorata al confronto endoprocedimentale antecedente all’adozione del provvedimento annullato. 

Di conseguenza, a seguito dell’annullamento l’amministrazione non potrebbe adottare un nuovo provvedimento negativo fondato su motivi già emergenti dalla precedente istruttoria. 

Tale orientamento, del «one shot puro», era già stato sostenuto e fondato sul previgente art. 10-bis della l. n. 241/1990, ritenendosi che tale disposizione imponesse all’amministrazione, quantomeno nei procedimenti ad istanza di parte, di indicare nella fase procedimentale le circostanze fattuali e giuridiche ostative alla soddisfazione della pretesa sostanziale del privato, provocando già in quella sede un contraddittorio con l’interessato. Sicché, ai sensi della disposizione in esame, l’amministrazione sarebbe tenuta ad enunciare nella fase procedimentale (tutte) le ragioni poste a fondamento del proprio convincimento di diniego, derivando dal mancato assolvimento di siffatto onere procedimentale il divieto di reiterazione del provvedimento sfavorevole sulla scorta di presupposti non esplicitati in precedenza[29].

È evidente che tale impostazione rafforza la capacità stabilizzante del giudicato amministrativo dinanzi al riesercizio del potere, estendendo il proprio alveo oggettivo anche al deducibile.

La tesi in esame è stata espressamente recepita dal legislatore con la recente riforma dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990[30], sia pur limitatamente ai procedimenti avviati ad istanza di parte e fatta eccezione per le procedure concorsuali ed i procedimenti in materia previdenziale e assistenziale, nella parte in cui si prevede che in caso di annullamento del provvedimento adottato l’amministrazione non può adottare un nuovo provvedimento negativo sulla scorta di motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato e non tempestivamente indicati.  

8. Segue: l’ipotesi del «one shot temperato» 

Al fine di non ingessare eccessivamente il potere discrezionale dell’amministrazione successivo al giudicato, la giurisprudenza amministrativa maggioritaria ritiene che il «one shot puro» non rappresenti il meccanismo ordinario dei rapporti tra giudicato amministrativo e riedizione del potere, bensì una regola eccezionale, circoscritta per espressa previsione normativa ai soli provvedimenti adottati su istanza di parte. 

Infatti, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, cui aderisce anche la sentenza in commento, sarebbe preferibile il principio del «one shot temperato», per cui si «consente all’Amministrazione pubblica che abbia subito l’annullamento di un proprio atto, di rinnovarlo una sola volta e, quindi, di riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza potere in seguito tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati»[31].  

Pertanto, l’effetto preclusivo per l’amministrazione non deriva dal primo giudicato di annullamento, non essendo impedito all’amministrazione di riesaminare la vicenda nella sua interezza – fermi restando, si intende, i vincoli imposti dal giudicato per i segmenti di potere già esercitati e vagliati dal giudice –, operando un siffatto effetto preclusivo solo dal secondo giudicato di annullamento (in avanti), a partire dal quale si produce «l’effetto di “svuotare” l’amministrazione del proprio potere discrezionale»[32].

Ne deriva che a seguito del secondo annullamento giudiziale, l’ulteriore riedizione viene ad essere interamente assoggettata alle regole imposte dal giudicato, essendo demandato ogni possibile contrasto tra il decisum ed i provvedimenti successivi al giudice dell’ottemperanza.

La tesi in esame è stata ulteriormente precisata dalla giurisprudenza. 

Anzitutto, è stato sostenuto che la preclusione derivante dal (secondo) giudicato non opera nelle ipotesi in cui l’annullamento giurisdizionale sia disposto per vizi meramente procedimentali[33].

In secondo luogo, si è ritenuto che nel “computo” delle riedizioni del potere non rientri l’eventuale riesame amministrativo svolto in ottemperanza a provvedimenti cautelari del giudice, rilevando ai fini dell’operatività della preclusione solo «il riesame completo della fattispecie, conseguente ad un primo giudicato di annullamento»[34].

L’impostazione di cui si tratta, precisata nei termini di cui sopra, rappresenterebbe per i giudici amministrativi il giusto punto di equilibrio tra la cogenza conformativa del giudicato amministrativo di annullamento, cui si correla l’effettività della tutela della parte vittoriosa in giudizio, e l’inesauribilità del potere amministrativo, mettendo al riparo il privato dal rischio di dover rincorrere con una serie potenzialmente infinita di impugnazioni un’attività amministrativa reiteratamente negativa fondata su ragioni e valutazioni sempre nuove. 

Va altresì osservato che la giurisprudenza ha pure rimarcato il “valore non assoluto” del principio del «one shot temperato», precisando, in particolare, che qualora sussistano rilevanti fatti sopravvenuti, l’amministrazione può nuovamente pronunciarsi. Al contrario, paradossalmente, si potrebbe persino giungere ad «escludere in radice la possibilità di attribuire al privato l’utilità sperata», all’esito di un «eventuale nuovo e diverso iter, fondato su presupposti o modalità autonome»[35]. Ciò, infatti, è coerente con la logica del principio, che è quella di non porre a carico del privato «gli errori e le omissioni della fase istruttoria, che spetta all’amministrazione», non certo quella di «impedire di considerare i fatti sopravvenuti rilevanti»[36].

Infine, per completezza, appare molto interessante la linea interpretativa seguita da quella giurisprudenza che – pur occupandosi di vizio della motivazione – ha posto in rilievo le potenzialità dell’istituto della convalida (istituto forse non adeguatamente approfondito, alla luce delle ultime riforme) sin dalla fase della cognizione e le sue ricadute sistemiche, rispetto alla riedizione del potere: «quando l’Amministrazione conserva intatto il potere di riemanare un provvedimento con dispositivo identico a quello che risulterebbe annullato per mero difetto di motivazione – in quanto il giudicato non ha potuto accertare la spettanza del provvedimento favorevole –, la combinazione di convalida (la quale può essere spontanea, ovvero occasionata da un ‘remand’ o da una richiesta di chiarimenti del giudice) e motivi aggiunti avverso l’atto di riesercizio del potere è in grado di accrescere le potenzialità cognitive dell’azione di annullamento, consentendo di focalizzare l’accertamento, per successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere (diversa è l’ipotesi in cui venga contestato un atto non ripetibile, giacché in tal caso, come si è detto sopra, la convalida non avrebbe effetto retroattivo). Il predetto dispositivo di concentrazione – coniugando l’inesauribilità del potere amministrativo con il diritto di difesa – agevola entrambe le parti del giudizio, in quanto: – consente al ricorrente una più rapida ed efficace verifica della sua possibilità di risultato vantaggioso (perseguita attraverso la deduzione di un vizio strumentale come il difetto di motivazione); – consente all’amministrazione di evitare annullamenti del tutto “sovradimensionati” rispetto alla reale consistenza dell’interesse materiale del privato, potendo dimostrare che l’insufficiente motivazione non ha alterato la fondatezza sostanziale della decisione»[37]

9. Riflessioni conclusive sulle possibili evoluzioni del «one shot temperato» 

Pur non trascurando di considerare la valenza del principio del «one shot temperato», permeato dall’esigenza di garantire l’effettività della tutela nel rispetto del quadro costituzionale e normativo delineato dal codice del processo amministrativo, pare opportuno svolgere qualche riflessione conclusiva sui possibili sviluppi dell’orientamento in parola, nella direzione di un migliore contemperamento tra gli interessi in gioco.  

Al riguardo, deve essere vagliata la possibilità di anticipare al primo giudizio impugnatorio l’onere per l’amministrazione di svolgere l’esame complessivo della vicenda, consentendo al giudice della cognizione (sin da questa fase) di svolgere un sindacato esaustivo sull’intero rapporto, alla luce di tutte le allegazioni difensive prodotte dalle parti. 

La percorribilità di tale soluzione deve essere necessariamente meditata anche alla luce dell’ammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione[38], dedotta in giudizio dall’amministrazione attraverso le difese processuali, tradizionalmente avversata dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa[39].

Invero, dovrebbe verificarsi se l’attuale sistema di giustizia amministrativa consenta di superare il tradizionale divieto dell’integrazione in giudizio della motivazione, al fine di consentire al giudice un esame complessivo della vicenda e, per l’effetto, la piena estensione del decisum all’intero rapporto controverso già all’esito del primo giudizio.   

Com’è noto, il divieto di integrazione postuma è stato tradizionalmente fondato, oltre che su ragioni di buon andamento amministrativo e di conformità alla disciplina dettata dall’art. 3 della l. n. 241/1990, sull’esigenza di garantire al privato la piena ed immediata conoscenza delle ragioni fattuali e giuridiche sottese al provvedimento[40]

Sicché, il divieto di integrazione postuma rappresenterebbe un presidio essenziale a salvaguardia del diritto di difesa del ricorrente e della parità delle armi in giudizio, volto ad evitare che il privato, a fronte di una motivazione inizialmente scarna e nebulosa, sia costretto ad “impugnare al buio” il provvedimento, rischiando peraltro di rimanere “sorpreso” dalle specificazioni addotte dall’amministrazione (per la prima volta) in sede di giudizio. Inoltre, l’integrazione in giudizio della motivazione condurrebbe ad un’indebita inversione dell’ordine logico-cronologico tra procedimento e processo, imponendo al privato di agire in giudizio al fine di conoscere le ragioni poste alla base della decisione amministrativa[41].    

Ebbene, pare che i predetti profili, sia pur astrattamente condivisibili e fondati in primis sull’esigenza di garanzia dei privati dinanzi all’esercizio del potere autoritativo, possano essere riletti proprio alla luce della medesima esigenza di garanzia sostanziale dei privati ed in ragione degli strumenti processuali oggi previsti dal codice del processo. 

In questa prospettiva, il rischio del ricorso al buio e dell’effetto sorpresa che il ricorrente potrebbe subire a seguito dell’integrazione giudiziale della motivazione potrebbe essere attutito dal ricorso per motivi aggiunti ex art. 43 c.p.a., attraverso cui il ricorrente è messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto di difesa rispetto alle nuove ragioni addotte dalla controparte, impugnando tutti i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi della pretesa addotti per la prima volta in giudizio dall’amministrazione (in via di eccezione) a sostegno della correttezza sostanziale del provvedimento.  

Il ricorso per motivi aggiunti potrebbe rappresentare un’adeguata forma di tutela processuale per il ricorrente, da contrapporre allo squilibrio derivante dall’integrazione operata dalla controparte pubblica, nella prospettiva di poter conseguire stabilmente all’esito (favorevole) del giudizio il bene della vita richiesto. 

Un ulteriore elemento a sostegno dell’ammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione può essere individuato nell’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, il quale in effetti pare avvalorare il superamento di qualsivoglia formalismo concernente la validità del provvedimento, (da un lato) imponendo all’amministrazione di esternare in giudizio tutti gli elementi a sostegno della correttezza del proprio operato «e che tuttavia non siano stati posti alla base della misura provvedimentale concretamente esercitata»[42], (dall’altro lato) chiamando il giudice ad un sindacato effettivo e diretto sul rapporto. 

Invero, nell’attuale sistema amministrativo, in cui l’annullamento del provvedimento è subordinato ex art. 21-octies ad una valutazione di concreta utilità sostanziale per il ricorrente, il divieto di integrazione postuma della motivazione pare rappresentare un simulacro di tutela degli interessi del privato, in realtà idoneo a frapporsi al soddisfacimento delle sue aspettative di giustizia sostanziale, consentendogli di ottenere una prima vittoria in giudizio solo formale e tale da postergare solo in avanti l’eventuale valutazione amministrativa di diniego.   

Oltre che tutelare l’esigenza di effettività e concentrazione della tutela del privato, la tesi in esame risulterebbe rispondente anche alle esigenze di economicità e di efficacia della funzione amministrativa e giurisdizionale, anticipando e concentrando nel corso del primo giudizio la spendita del potere e le conseguenti preclusioni, evitando l’ulteriore avvio di procedimenti amministrativi e l’instaurazione di giudizi impugnatori.  

Peraltro, eventuali condotte abusive dell’amministrazione, volte a celare in prima battuta (in motivazione) i presupposti più basilari ed immediati del provvedimento al fine di scoprirli (con “effetto sorpresa”) per la prima volta in giudizio, laddove lesive dei canoni generali di correttezza e buona fede, dovrebbero essere censurate dal giudice attraverso l’irrogazione di sanzioni processuali ad hoc (id est: condanna alle spese del giudizio), pur a fronte di un eventuale rigetto nel merito del ricorso. A tal fine, tuttavia, sarebbe auspicabile un intervento legislativo sull’art. 26 c.p.a., volto a tipizzare apposite sanzioni processuali da comminare per le predette condotte abusive perpetrate dall’amministrazione (pur non formalmente soccombente).   

Lungo il solco appena tracciato, si verrebbe ad instaurare un contraddittorio processuale pieno, avente ad oggetto l’intera vicenda amministrativa controversa, con conseguente allargamento dell’oggetto del giudizio all’intero rapporto. Il giudicato, dunque, sarebbe dotato di un’intrinseca stabilità e certezza, precludendosi all’amministrazione la possibilità di adottare un nuovo provvedimento lesivo sulla scorta di presupposti fattuali e giuridici conosciuti (o conoscibili) al momento del giudizio e tuttavia ivi non dedotti (o eccepiti). 

Rispetto al principio del «one shot temperato», la tesi in esame potrebbe consentire di arretrare la soglia della preclusione al primo giudizio d’impugnazione, in una logica di economia processuale e concentrazione della tutela, ampliando già in quella sede il thema decidendum del giudizio e, di conseguenza, le maglie oggettive del giudicato, nell’equo contemperamento delle contrapposte esigenze di autonomia del potere amministrativo e parità del contraddittorio processuale[43].  

[1] Giova precisare che la vicenda in esame non si riferisce alle ipotesi di giudicato di annullamento per difetto di motivazione, in relazione alle quali la più recente giurisprudenza ha rilevato che: «quando ci si trova di fronte ad un annullamento giurisdizionale per difetto di motivazione, residua uno spazio assai ampio per il riesercizio dell’attività valutativa da parte della P.A., con la conseguenza che se essa elimina il vizio motivazionale, ma ciò nonostante adotta un provvedimento ugualmente non satisfattivo della pretesa, si avrà violazione o elusione del giudicato solo se l’attività asseritamente esecutiva dell’Amministrazione risulti contrassegnata da uno sviamento manifesto, diretto ad aggirare le prescrizioni, puntuali, stabilite con il giudicato; altrimenti viene in questione non la violazione ovvero elusione del giudicato, bensì un’eventuale nuova autonoma illegittimità deducibile attraverso l’ordinario giudizio di cognizione (cfr. Consiglio di Stato sez. III, 14 novembre 2017, n. 5250)» (Cons. St., sez. IV, 14 aprile 2023, n. 3784).

[2] Per l’esame di alcune questioni giurisprudenziali inerenti all’istituto del soccorso istruttorio, si veda T. Linardi, Il soccorso istruttorio e l’omologazione del concordato in continuità nelle procedure ad evidenza pubblica (nota a Cons. St., Sez. III, n. 9147/2022), in giustiziainsieme.it.

[3] Va rilevato che correttamente, nella fattispecie, il giudizio è stato proposto con il rito dell’ottemperanza, in conformità al consolidato indirizzo del Consiglio di Stato (a partire dalla nota sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 2/2013), secondo cui è certamente ammissibile la proposizione di un solo ricorso, davanti al giudice dell’ottemperanza – in luogo dei due che l’interessato in passato, per ragioni di cautela processuale, era costretto ad esperire – avverso tutti i provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di un precedente provvedimento. Altrettanto correttamente, il Tar, ritenendo che i motivi di ricorso non attenessero a questioni di ottemperanza, ma dovessero essere trattati nella fase della cognizione, ha disposto la conversione del rito (in ordinario), ai sensi dell’art. 32, c. 2, c.p.a.

[4] Cfr. ex plurimis Cons. St., sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1686 e gli ulteriori riferimenti ivi citati. 

[5] Cfr. tra le tante: Cons. St., sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660; sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1686; sez. V, 6 febbraio 1999, n. 134; sez. IV, 5 agosto 2003, n. 4539; sez. VI, 9 febbraio 2010, n. 633; sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3259; sez. IV, 6 ottobre 2014, n. 4987. 

[6] Secondo H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Trad. It., Torino, 1956, 77, l’efficacia dell’ordinamento rappresenta condicio sine qua non di validità di ciascuna norma in esso contenuta.   

[7] G. Chiovenda, Saggi di diritto processuale, Bologna, 1903, 110. Sul punto, anche E. Picozza, Processo amministrativo (normativa), in Enc. Dir., Milano, 1987, 465.

[8] Cfr. V. P. Calamandrei, Processo e giustizia, in Opere giuridiche, Napoli, 1965, 577, laddove si rilevava che «tutte le libertà sono vane se non possono essere rivendicate e difese in giudizio e se l’ordinamento del giudizio non è fondato sul rispetto della persona umana».

[9] Cfr. A. Di Majo, Forme e tecniche di tutela, in S. Mazzamuto (a cura di), Processo e tecniche di attuazione dei diritti, Napoli, 1989, 25, ripreso da I. Pagni, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in Dir. Proc. Amm., n. 2/2016, 401 ss.

[10] Secondo la CEDU «the domestic remedies must be effective». Sul punto cfr. ex plurimis CEDU, 28 luglio 1999, Immobiliare Saffi c. Italie; 18 novembre 2004, Zazanis c. Grèce; 15 maggio 2011, Ventorio c. Italia; 27 luglio 2004, Romashov c. Ucraina; 16 novembre 2006, Muzevic c. Croazia; 13 marzo 1997, Hornsby c. Grecia

[11] Cfr. Corte Giust. UE, 13 marzo 2007, C-432/05, Unibet; 3 dicembre 1992, C-97/91, Oleificio Borelli; 15 ottobre 1987, C-222/86, Heylens; 15 maggio 1986, C-222/84, Johnston.

[12] Cfr. V. Cerulli Irelli, Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni (dalla Costituzione al Codice del processo amministrativo), in Dir. Proc. Amm., 2012, 472.  

[13] Sui rapporti tra principio di effettività della tutela giurisdizionale e diritto amministrativo, si veda: B. Raganelli, Efficacia della giustizia amministrativa e pienezza della tutela, Torino, 2012, 21 ss.; M. Clarich, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1998, 523 ss.; A.M. Sandulli, L’effettività delle decisioni giurisdizionali amministrative, in Atti del convegno celebrativo del centocinquantesimo anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983, 305 ss.; E. Capaccioli, Diritto e processo – Scritti vari di diritto pubblico, Padova, 1978, 465 ss.; S. Giacchetti, Giustizia amministrativa: alla ricerca dell’effettività smarrita, in Dir. Proc. Amm., 1996, 459; G. Verde, Rimozione degli atti amministrativi ed effettività della tutela, in Riv. Dir. Proc., 1984, 42.

[14] Cfr. F. Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d.; O. Ranelletti, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano, 1934, 501 ss.; A.M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 56; F. Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., Milano, 1969, 897 ss.

[15] Cfr. M. Nigro, Giustizia amministrativa, E. Cardi – A. Nigro (a cura di), V ed., Bologna, 2000, che, nell’argomentare sulla nozione elastica e polimorfe del giudicato amministrativo, distingue tra effetto vincolante pieno (diretto o indiretto), effetto vincolante secondario (o strumentale) ed effetto vincolante semipieno.          

[16] Come affermato in giurisprudenza: «Nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo il principio processualcivilistico, secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, non è pienamente applicabile, dal momento che nel giudizio d’impugnazione il giudicato si forma solo in relazione ai vizi dell’atto di cui è stata accertata la sussistenza (o l’insussistenza) sulla base dei motivi di censura articolati dal ricorrente (Consiglio di Stato, sez. IV, 01/08/2016, n. 3475)» (T.A.R. Cagliari, sez. I, 13 febbraio 2017, n. 102; cfr., altresì, Cons. St., sez. VI, 24 aprile 2018, n. 2495; T.A.R. Catania, sez. IV, 11 ottobre 2016, n. 2493; T.A.R. Milano, sez. II, 2 luglio 2018, n. 1640). La giurisprudenza ha riconosciuto l’attitudine del giudicato amministrativo a coprire anche il deducibile con precipuo riferimento alle ipotesi di giurisdizione esclusiva, ove si controverta di diritti soggettivi, a patto che il “non dedotto” non afferisca a precedenti provvedimenti rimasti inoppugnati e si ponga come antecedente logico necessario del decisum. Sul punto, si veda: Cons. St., sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3439; Cons. St., sez. IV, 11 marzo 2013, n. 1473; Cons. St., sez. III, 6 marzo 2012, n. 1265; Cons. St., sez. VI, 8 settembre 2008, n. 4288; Cons. St., sez. IV, 12 gennaio 2005, n. 38; Cons. St., sez. IV, 25 agosto 2003, n. 4800. 

[17] Cfr. M. Clarich, Il giudicato, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, Milano, 2013, 289.

[18] Cfr. M. Andreis, Tutela sommaria e tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 1996.

[19] G. Corso, Processo amministrativo di cognizione e tutela esecutiva, in Foro it., V, 1989, 431. 

[20] Cfr. Cons. St., Ad. Pl., 15 gennaio 2013, n. 2 con nota di A. Travi, in Foro it., 2014, III, 712; F. Figorilli, La difficile mediazione della Plenaria fra effettività della tutela e riedizione del potere nel nuovo giudizio di ottemperanza, in Urb. e app., 2013, 952; M. Trimarchi, Sui vincoli alla riedizione del potere amministrativo dopo la pronuncia dell’adunanza plenaria n. 2/2013, in Dir. proc. amm., 2015, 384; F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in F. Francario – M.A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, Napoli, 2018, 119 ss.; E. Tedeschi, Contenuto conformativo della sentenza e competenza per l’ottemperanza (nota a Consiglio di Stato, sez. V, 21 settembre 2020, n. 5485), in giustiziainsieme.it; R. Dagostino, Ottemperanza al giudicato civile: interpretazione, integrazione o sostituzione del giudicato? (nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2020, n. 4369), in giustiziainsieme.it.

[21] Cfr. M. Trimarchi, Sui vincoli alla riedizione del potere amministrativo dopo la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 2/2013, in Dir. Proc. Amm., I, 2015, 393 ss., laddove l’Autore evidenzia notevoli perplessità sia teoriche che pratiche sull’impostazione accolta dal Consiglio di Stato: a riprova, si evidenzia che i giudici amministrativi escludono la contrarietà del nuovo provvedimento lesivo (esclusione di una società dalla gara pubblica) al precedente giudicato (annullamento della precedente esclusione) sulla base della mera diversità della motivazione, trascurando di verificare se la stessa si fondasse su nuovi elementi di fatto o su diverse valutazioni. Inoltre, sull’evanescente distinzione tra giudizi di fatto e di valore si richiama il contributo di A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti e sindacato di legittimità, Milano, 1987, 257 ss.       

[22] Sul punto, G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, in Dir. proc. amm., n. 4/2017, 1247, rileva come la Plenaria non abbia chiarito se il giudicato amministrativo copra i fatti preesistenti non sopravvenuti e rimasti estranei al sindacato del giudice, non escludendo che «la preclusione riguardi anche i fatti che solo implicitamente sono stati oggetto di esame da parte del giudice». 

[23] Cfr. Cons. St., sez. III, 23 giugno 2014, n. 3187.  

[24] Cfr. Cons. St., Ad. Plen., 9 giugno 2016, n. 11. 

[25] Cfr. F. Manganaro, Giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in Dir. proc. amm., 2018, 534 ss.

[26] F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., n. 6/2016, 1025 ss.

[27] Cfr. Cons. St., sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, la quale rappresenta una pietra miliare nella giurisprudenza sul tema oggetto del commento. 

[28] Cfr. ancora Cons. St., sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, ove si afferma che: «la necessità di dimostrare nei fatti tale evoluzione appare anche coerente con la recente affermazione – che il collegio condivide pienamente – secondo la quale, avendo riguardo alla concezione soggettiva della tutela e alla centralità processuale della situazione soggettiva rispetto all’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, sembra ormai potersi «capovolgere definitivamente l’allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può forse spingere ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo»».

[29] Cfr. M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2005, 572 ss.; I. Pagni,L’azione di adempimento nel processo amministrativo, in www.giustamm.it.

[30] Ci si riferisce, in particolare, alla riforma dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 ad opera dell’articolo 12, comma 1, lettera e), del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120. Al riguardo si richiamano le interessanti considerazioni di M. Brocca, Il preavviso di diniego e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130), in giustiziainsieme.it. Le prime autorevoli interpretazioni giurisprudenziali convergono nell’osservare che «tale precetto che impone alla pubblica amministrazione di esaminare l’affare nella sua interezza – già nella fase del procedimento (e non solo nel processo, come la giurisprudenza già riteneva in alcune ipotesi: cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1321 del 2019), sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora esaminati – dovrà trovare attuazione, per evidenti ragioni sistematiche (e per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida per difetto di motivazione» (Cons. St., sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385). 

[31] Cfr. C.G.A.R.S., 8 maggio 2022, n. 597; Cons. St., sez. II, 14 aprile 2020, n. 2378; Cons. St., sez. V, 8 gennaio 2019, n. 144; Cons. St., sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660. 

[32] Cfr. Cons. St., sez. VII, 17 ottobre 2022, n. 8803.

[33] Cfr. Cons. St., sez. IV, 29 gennaio 2015, n. 439. 

[34] Cfr. Cons. St., sez. VI, 4 maggio 2022, n. 3480.

[35] Cons. St., sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1686. 

[36] Cons. St., sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660, con nota di E. Traversa, in Giur. It., 2017, 7, 1672. 

[37] Cons. St., sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385, ove è stato altresì osservato che «L’interessato, quindi, nel corso del medesimo giudizio, ben potrà domandare, sia l’annullamento dell’atto di convalida perché autonomamente viziato – contestandone quindi la stessa “ammissibilità” -, sia l’annullamento dell’atto come convalidato, adducendone la persistente illegittimità”, con la conclusione per cui: “Questa soluzione è inoltre conforme a principi di effettività e concentrazione della tutela (art. 7, comma 7, del c.p.a.), i quali postulano il massimo ampliamento del contenuto di accertamento del giudicato amministrativo. Tale canone processuale si realizza facendo confluire all’interno dello stesso rapporto processuale – per quanto possibile – tutti gli aspetti della materia controversa dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita, evitando defatiganti parcellizzazioni della medesima disputa». 

[38] Sul punto, si richiamano ancora le riflessioni di G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, cit.

[39] Tale orientamento, tutt’ora prevalente in giurisprudenza, è stato sostenuto anche dal TAR Pescara nella sentenza n. 435/2021, sulla cui (asserita) ottemperanza lo stesso TAR abruzzese si è pronunciato con la sentenza n. 107/2023, qui in commento. Nella prima pronuncia, infatti, i giudici amministrativi avevano ritenuto inammissibile l’integrazione postuma della motivazione in giudizio, incentrata proprio sulla carenza degli ulteriori requisiti posta a fondamento del secondo provvedimento di esclusione (poi impugnato), rilevando che «sul punto la giurisprudenza è chiara nell’affermare che nel processo amministrativo l’integrazione in sede giudiziale della motivazione dell’atto amministrativo è ammissibile soltanto se effettuata mediante gli atti del procedimento ‒ nella misura in cui i documenti dell’istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della determinazione assunta ‒ oppure attraverso l’emanazione di un autonomo provvedimento di convalida (art. 21-nonies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990). È invece inammissibile un’integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza, 7 aprile 2014, n. 1629)». 

[40] Cfr. C. Mortati, Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione degli atti amministrativi (a proposito del procedimento di scrutinio delle promozioni per merito comparativo), in Giur. It, 1943, III; Cons. St., sez. VI, n. 2555/2008, in Foro Amm. C.d.S., 2008, 1, 1556; Cons. St., Sez. V, n. 6345/2006, ivi, 2006, 10, 2843. 

[41] Cfr. G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, cit., 1244.

[42] A. Romano Tassone, Sulla regola del dedotto e deducibile nel giudizio di legittimità, in www.giustamm.it.

[43] Sia consentito, in conclusione, riportare le condivisibili considerazioni della giurisprudenza sopra citata (Cons St., sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321), per la loro importanza sul tema, soprattutto nella parte in cui i giudici amministrativi ritengono che dal codice del processo amministrativo sia desumibile in via interpretativa «un dispositivo di chiusura del sistema, volto a scongiurare l’indefinita parcellizzazione giudiziaria di una vicenda sostanzialmente unitaria», identificabile nella «riduzione progressiva della discrezionalità amministrativa, in via sostanziale o processuale». Peraltro, «la consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati». 

 

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