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Dei piani propri dei diversi strumenti della legge fallimentare e delle novità allo stato previste dalla riforma, Riccardo Ranalli ha pubblicato un approfondimento. L’articolo è ripreso da ”Il fallimento e le altre procedure concorsuali”, il magazine edito da Ipsoa che approfondisce i profili sostanziali e processuali della materia fallimentare.

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Di seguito, riportiamo integralmente un estratto della rivista.

I piani industriali, nel momento in cui devono essere utilizzati per l’adozione degli strumenti della legge fallimentare (piani di risanamento attestati, accordi di ristrutturazione, accordi di cui all’art. 182 septies, concordati preventivi), necessitano di adattamenti ed integrazioni, taluni di essi specifici del singolo strumento.

Elementi comuni sono la razionalità delle motivazioni che consentono di rimuovere le cause della crisi e l’esigenza della idoneità al raggiungimento del risanamento dell’esposizione debitoria e del riequilibrio finanziario.

Le differenze più marcate emergono invece con riferimento alla determinazione dell’esposizione debitoria che è oggetto di risanamento, alla data di riferimento della stessa, nonché alla misurazione e gestione del rischio inerente al piano. Su questi aspetti, in quanto elementi critici, ci si soffermerà più avanti.

Le differenze però non si limitano ad essi ma coinvolgono altri profili di minore rilevanza dei quali i piani debbono tenere conto.

Un primo aspetto, peculiare del concordato preventivo, attiene al monitoraggio da parte degli organi della procedura. Perché esso sia efficace, il piano deve avere una scansione temporale ravvicinata nella sua parte iniziale; in difetto vi è il rischio che un andamento negativo iniziale (pur comune ad ogni processo di ristrutturazione) venga letto dal commissario e dal tribunale come una situazione di manifesta dannosità della prosecuzione dell’attività di cui all’art. 186 bis, ult. comma, l.fall. Da qui l’importanza, nell’interesse del debitore, della rappresentazione e giustificazione della dinamica aziendale, attesa anche nel breve termine, che tenga conto dei fenomeni della stagionalità e della volatilità.

La scansione temporale ravvicinata assume anche rilevanza per consentire all’attestatore di esprimersi sulla funzionalità della finanza interinale alla migliore soddisfazione dei creditori, sia nel concordato preventivo che negli accordi di ristrutturazione. Il comma 1 dell’art. 182 quinquies l.fall. chiede infatti all’attestatore di verificare il complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione.

Altro momento di specificità del concordato preventivo è costituito dall’esigenza di misurare l’impatto derivante dalla notizia della crisi. La manifestazione all’esterno dello stato di crisi attraverso la notizia dell’ammissione al concordato preventivo, può incidere, infatti, sulla fiducia della clientela nei confronti dell’impresa e della sua capacità di stare sul mercato. L’impatto è più severo per le realtà che operano su commessa ed è tanto più rilevante quanto maggiore è la durata del ciclo produttivo, dall’ordine alla consegna, ma può verificarsi anche per aziende che producono in serie, per i dubbi che la notizia della crisi potrebbe ingenerare sui clienti in ordine alla capacità dell’impresa di mantenere adeguati standard qualitativi e a garantire un soddisfacente servizio post vendita.

La notizia della procedura concorsuale ha anche un impatto sui rapporti con i fornitori, che in una prima fase  tenderanno ad esigere pagamenti in tempi più brevi, in alcuni casi alla consegna della merce o addirittura all’ordine.

La stima di tali effetti, che colpiscono il debitore in particolare nella fase sino all’omologa, non è affatto agevole ed espone il piano ad un ulteriore momento di rilevante incertezza. Il ricorso al concordato con riserva, sotto questo profilo, assicura un patrimonio informativo maggiore consentendo di misurare la reazione delle controparti prima della definitiva redazione del piano a tutto beneficio dell’affidabilità delle stime e della valutazione di fattibilità.

Altro momento di specificità risiede nell’esigenza di dare articolata dimostrazione, per quanto ex ante, delle modalità di superamento delle situazioni rilevanti ai sensi degli artt. 2447 e 2482 ter c.c. In caso di accordi di ristrutturazione e di concordati preventivi con continuità soggettiva, si tratta di stimare l’effetto congiunto dell’andamento aziendale e delle pattuizioni ad una data solamente preconizzata e comunque differita.

Nell’affrontare la posizione debitoria non si può non partire dalla nozione della “spalla” del piano. Già si è detto che essa è la situazione patrimoniale di partenza che si colloca ad una data anteriore rispetto a quella del momento in cui il piano viene redatto e dalla quale quest’ultimo si sviluppa in termini di flussi economici e finanziari.

Si è infatti portati a ritenere che “spalla” del piano e indebitamento debbano avere una data di riferimento comune e ciò non è privo di fondamento. Depongono, infatti, a favore di una data unica esigenze di sistematicità nella rappresentazione dei dati. Ciò che però appare logico sotto un profilo astratto trova, nell’esercizio concreto, limiti e vincoli tale da impedire di conciliare l’auspicata sistematicità con la disponibilità di flussi informativi affidabili.

La nozione stessa di indebitamento è assai diversa in una soluzione concordataria rispetto ad un accordo di ristrutturazione o ad un piano di risanamento. Nel primo caso si tratta dell’intero debito alla data di apertura del concorso, nei restanti invece si tratta del solo debito scaduto il cui ritardo nel pagamento eccede i limiti della fisiologia. L’indebitamento complessivo in questo caso viene distinto in due sottoinsiemi: quello corrente e quello scaduto. Le motivazioni di ciò risiedono nel fatto che la copertura del debito commerciale corrente, diversamente rispetto al debito scaduto, è implicita al ciclo di conversione dei fattori produttivi in flussi di cassa, ciclo che verrà approfondito più avanti.

La misurazione dell’indebitamento richiede specifiche analisi che non sono strettamente necessarie per il confezionamento della situazione patrimoniale che costituisce la spalla del piano: si pensi alla compensazione di partite creditorie e debitorie in caso di concordato preventivo, si pensi alla ripartizione dei creditori in cluster omogenei con finalità e perimetri diversi a seconda dello strumento adottato, si pensi infine alla maturazione degli interessi moratori dovuti in caso di ritardato pagamento delle forniture commerciali, come disposto dal D.Lgs. n. 192/2012 di recepimento della Dir. n. 2011/7/UE, in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

Anche la data di riferimento dell’indebitamento è diversa a seconda dello strumento adottato: in caso di concordato preventivo, occorre riferirsi alla data di apertura del concorso, mentre in caso di accordo di ristrutturazione, per la verifica del superamento della soglia del 60% o la misurazione delle maggioranze per il trascinamento dei creditori riottosi tramite l’art. 182 septies, si rende necessario l’aggiornamento ad una data quanto più possibile prossima. Maggiore flessibilità è invece consentita nel caso di piano attestato.

La scelta della data della “spalla” del piano deve essere invece operata privilegiando l’affidabilità dei dati contabili di sintesi (quello statico della posizione finanziaria netta, ma anche quelli dinamici prospettici quali Earnings Before Interest, Taxes, Dapretiationa and Amortization – EBITDA, Free Cash Flow From Operations – FCFO e Net Operating Profit After Taxes – NOPAT) ed assumendo una data infra-annuale per la quale il rispetto della competenza economica (c.d. cut off) è più agevole. Che sia da privilegiare l’accuratezza del dato di sintesi rispetto al suo allineamento con lo stato passivo d’altronde emerge anche dal fatto che la costruzione del piano può antecedere il momento in cui è effettuata la scelta dello strumento, dipendendo quest’ultima in parte dalla manovra/proposta che il debitore confezionerà solo a valle del piano. Al punto che potrà essere necessario cambiare in corso d’opera la data di riferimento dell’indebitamento se, nel corso della procedura, si dovesse optare per uno strumento di composizione della crisi diverso da quello inizialmente scelto, ad esempio, nel caso della “passerella inversa” e cioè di uscita da un concordato prenotativo di cui al sesto comma dell’art. 161 con un accordo di ristrutturazione; in tali situazioni, ai fini della misurazione del superamento della soglia del 60% prevista dall’art. 182 bis, non rileverebbe, infatti, l’indebitamento risalente alla data di accesso al prenotativo ma occorrerebbe assumere quello corrente.

Diversamente dall’indebitamento, il fatto che la spalla del piano sia risalente nel tempo rispetto al momento della sua redazione, spesso in conseguenza del protrarsi delle negoziazioni, non ne inficia invece l’attendibilità a condizione però che sia possibile la valutazione del current trading (andamento gestionale) più recente e ne sia data evidenza. La disamina del current trading non necessita, infatti, di un’accurata situazione patrimoniale di partenza e neppure di una chiusura contabile; occorre però che siano desumibili dal piano gli indicatori più significativi di performance (key performance indicator – KPI) coerenti con il segmento di attività, il modello di business e le strategie individuate. Dal confronto del loro valore corrente con le previsioni del piano si potrà cogliere se la gestione sia o meno allineata alle aspettative e ricercare la causa degli scostamenti. Qualora dal confronto dovessero emergere scostamenti negativi rilevanti, il piano dovrà essere rivisto criticamente non solo nella sua spalla, ma anche nella sua capacità predittiva. Perché tutto ciò sia possibile occorre però un’adeguata scansione mensile del piano che non può di certo essere costruita semplicemente suddividendo in dodicesimi le grandezze del primo anno di piano, pur dovendo essere sempre consapevoli che qualsiasi scansione non potrà mai riflettere l’effetto dell’ordinaria volatilità di breve termine (cagionata, ad esempio, dal numero di giorni lavorativi nel mese, da eventuali giorni di sciopero, da altri accadimenti straordinari).

Come già detto, il piano deve essere sorretto da intenzioni strategiche che siano razionalmente atte a consentire il superamento dello stato di crisi. Perché ciò sia possibile occorre che il piano di risanamento contenga una chiara e convincente individuazione delle cause della crisi ed una altrettanto convincente attitudine delle linee guida del piano a rimuoverle.

Le linee guida del piano vengono quindi tradotte in azioni. In presenza di una crisi, le azioni costituiscono un momento di discontinuità rispetto al passato ed è possibile che, nel momento in cui talune di esse vengono attuate, il loro effetto si dimostri inferiore alle attese o, addirittura, la loro implementazione possa incontrare ostacoli non previsti.

Le azioni non devono però essere intese come un percorso rigido ed immutabile attraverso il quale ricercare il risanamento dell’impresa. Ben possono essere modificate o addirittura sostituite, senza con ciò pregiudicare il piano e le protezioni ad esso associate. L’obiettivo del risanamento del debito e quello del riequilibrio finanziario ben potranno essere ricercati, nel momento in cui dovessero presentarsi ostacoli inattesi, attraverso percorsi alternativi, purché coerenti con i caposaldi (linee guida) del piano.

Un elemento caratterizzante l’action plan in situazioni di crisi è però sempre la sua portata innovativa, posto che la rimozione di una causa della crisi necessita di un’azione. In tal senso l’action plan iniziale costituisce il primo passo del percorso di risanamento. Di lì in avanti sarà il management che dovrà adeguare nel tempo il piano delle azioni, avvalendosi dello strumento del monitoraggio e cioè della misurazione in continuo degli effetti raggiunti in comparazione con quelli programmati. La conduzione dell’impresa, in particolare quando si tratti di traghettarla al di fuori della crisi, non è tanto una questione di processo, bensì di presidio e sotto questo profilo è di grande rilevanza, anche se troppo spesso trascurato, il fatto che il piano contenga un’obiettiva ed indipendente valutazione dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo unitamente all’individuazione dei relativi rafforzamenti. Le ristrutturazioni di grande successo dimostrano che gli interventi organizzativi con riformulazione e sostituzione dei presidi nei ruoli chiave sono sempre determinanti.

Per quanto siano rilevanti, non è dalla individuazione sin dal momento iniziale dei piani di rimedio (di contingency) che possa attendersi il raggiungimento dell’obiettivo del risanamento, quanto piuttosto dalla capacità di intercettare costantemente l’andamento concreto dell’azienda mediante la rapida risalita di informazioni affidabili. Il piano di contingency, se previsto, rende solo più agevole l’attestazione della fattibilità, ma ciò non tanto per il fatto che è previsto un piano di back up, quanto perché se il management oggi è consapevole di dover prevedere soluzioni alternative in caso di insuccesso di quelle principali, sarà anche in grado domani di valutare criticamente l’efficacia delle scelte adottate senza rimanere ancorato irremovibilmente ad esse.

Il piano deve consentire di stimare le “risorse finanziarie necessarie e relative modalità di copertura” (la citazione è del piano del concordato preventivo in continuità ed è contenuta nell’art. 186 bis l.fall., ma può essere estesa ad ogni piano). Essa è volta al duplice obiettivo della misurazione dei flussi di cassa liberi destinabili al servizio del debito e della dimostrazione del raggiungimento dell’equilibrio della situazione finanziaria di cui al comma 3, lett. d), dell’art. 67, quale indicatore del superamento dello stato di crisi e, conseguentemente, presupposto della fattibilità del piano. Il riequilibrio finanziario e la misurazione dei flussi al servizio del debito necessitano di una corretta traduzione delle grandezze economiche in grandezze finanziarie. Per passare dai dati economici a quelli finanziari occorre tenere conto di come i ricavi ed i costi si convertano in incassi e pagamenti. Lo strumento è il c.d. cash convertion cycle, con il quale, nello specifico, si intende il periodo intercorrente tra il pagamento della fattura del fornitore e il momento di incasso della fattura attiva del cliente. Il periodo considerato copre sia il processo di trasformazione dell’acquisto, nel quale l’impresa apporta il suo valore aggiunto, sia i tempi di attraversamento del magazzino da parte dei beni acquistati e trasformati. In forma aggregata, è possibile individuare un indicatore che esprime in quanti giorni l’impresa è mediamente in grado di “monetizzare” l’attività (D.S.O. + D.I.O. – D.P.O. = X gg ove D.S.O., D.I.O. e D.P.O. sono, rispettivamente, gli acronimi di Days Sales Outstanding – tempo medio di incasso delle fatture attive, Days Inventory Outstanding – tempo medio di rotazione delle scorte e Days Payables Outstanding – tempo medio di pagamento delle fatture passive).

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La formula utilizzata per determinare i giorni di incasso dei crediti commerciali è la seguente: Crediti Commerciali (alla fine dell’anno di osservazione) / (Fatturato dell’anno + relativa IVA) x 365. Tale formula presuppone che i crediti commerciali rilevati alla chiusura dell’esercizio siano tutti correnti e non prende in considerazione eventuali posizioni anomale; la rigorosa applicazione della formula presuppone pertanto l’enucleazione dai crediti delle partite incagliate.

Quanto ai tempi medi di pagamento dei debiti verso fornitori la formula è la seguente: Debiti verso fornitori (alla fine dell’anno di osservazione) / (Acquisti dell’anno + relativa IVA) x 365. I debiti verso i fornitori, per una stima del ciclo di conversione che assuma significatività, occorre che siano rettificati delle partite scadute che superano i limiti della fisiologia.

I tempi di rigiro del magazzino, fondamentali per dimensionare correttamente lo stesso, sono calcolati con formule distinte a seconda che si tratti di prodotti finiti, semilavorati o materie prime (le prime riferite al fatturato, le ultime agli acquisti). Anche in questo caso, prima di procedere al calcolo dell’indice, occorre analizzare le giacenze di magazzino al fine di individuare la quota parte di c.d. slow-moving che presenta scarse movimentazioni e la quota parte di c.d. no moving ovvero di prodotti obsoleti e non più utilizzabili, a prescindere dalla svalutazione del loro valore di carico.

Nel processo di declinazione finanziaria dovrebbe essere anche indagato l’effetto del fenomeno della stagionalità del capitale circolante. La maggior parte dei settori industriali, infatti, è caratterizzata da una stagionalità intrinseca del business, vuoi per una dinamica non lineare delle vendite nel corso dell’anno, vuoi per il processo di approvvigionamento che può comportare acquisti a lotti a causa di dinamiche di mercato e di produzione specifiche del settore. Tali eventi si ripercuotono, in misura anche rilevante, sull’andamento del capitale circolante in corso d’anno e sul conseguente fabbisogno finanziario. Per tale ragione l’analisi del dato consuntivo di fine anno può essere in parte fuorviante, in quanto non considera i picchi di fabbisogno nel corso dei dodici mesi precedenti. L’analisi della stagionalità, per i suoi effetti sul capitale circolante, è di fondamentale rilevanza in quanto permette di dimensionare correttamente i fabbisogni finanziari dell’impresa. Si pensi, per esempio, alle catene retail di abbigliamento: esse operano attraverso due collezioni annuali, segnatamente primavera/estate e autunno/inverno. Gli approvvigionamenti sono effettuati, in larga parte, presso Paesi esteri, in particolare nel sud-est asiatico, e ciò comporta l’acquisto con largo anticipo dei capi prima dell’inizio di ciascuna stagione (circa 4-5 mesi prima) due volte all’anno. La tipicità di questo business implica, quindi, un picco di fabbisogno di capitale circolante causato dal pagamento dei debiti verso i fornitori e dallo stoccaggio delle merci in magazzino, che si manifesta prima dell’inizio di ogni stagione, tipicamente nei mesi di marzo-aprile e agosto-settembre.

Quanto alle restanti partite del Capitale Circolante Netto (debiti verso dipendenti, erario e contributi), i relativi fattori di costo, per semplicità di approccio, possono invece essere dati per pagati “a pronti” ancorché il loro pagamento sia in tutto o in parte differito di alcuni giorni rispetto al momento di manifestazione numeraria. Nella declinazione finanziaria, occorre tenere conto anche delle imposte sul reddito e dell’IVA, muovendo dalla situazione oggettiva e, quanto all’IVA, considerando anche i tempi e le modalità con i quali essa viene incassata dai clienti, pagata ai fornitori e riversata all’erario.

Gli investimenti e gli oneri non ricorrenti devono essere portati in conto con i tempi di pagamento relativi.

Completata la declinazione finanziaria si può procedere alla stima dei flussi di cassa al servizio del debito. Essi sono espressi dal FCFO (acronimo di Free Cash Flow from Operations), che corrisponde a:

MOL

(-) Fabbisogno per la copertura del CCN (Capitale Circolante Netto)

(-) Investimenti previsti a piano

(-) Imposte sul reddito

(+) Proventi straordinari derivanti dalla dismissione dei surplus assets.

Il FCFO corrisponde alla misura dei flussi liberi al servizio del debito e pertanto alle risorse che potranno essere destinate per il pagamento dei creditori estranei e al pagamento del debito concorsuale.

Esso muove dalla variazione di CCN che corrisponde alla somma algebrica dei seguenti dati: la variazione dei crediti commerciali, delle giacenze di magazzino,  dei debiti di fornitura, degli altri debiti diversi da quelli finanziari.

La variazione del CCN non è però sufficiente a determinare il fabbisogno finanziario della continuità. Vi sono elementi che non debbono essere sottovalutati, che vanno oltre il cash convertion cycle dianzi esaminato: i) la stagionalità del business, che altera la stima del tempo di conversione se riferita a date di rilevazione di calendario non omogenee; ii) la volatilità del business che rende la stessa di difficile previsione in corso di periodo; iii) il cambiamento del mix dei fornitori che incide sui tempi medi di dilazione dei pagamenti; iv) l’impatto del mutato merito di credito presso i fornitori che riduce la propensione ad accettare termini fisiologici di pagamento eccedenti quelli contrattuali e incide finanche su questi ultimi. Il suggerimento è quello di costruire un piano di tesoreria annuale, prevedere buffer per mitigare la volatilità del business e costruire il fabbisogno occorrente per il pagamento dei fornitori muovendo da cluster degli stessi caratterizzati da omogeneità di posizioni soggettive.

Dal confronto  tra l’indebitamento, determinato con le peculiarità proprie del singolo strumento di composizione della crisi, e i flussi liberi destinabili al servizio del debito viene tratta la proposta concordataria o, in caso di accordo con i creditori, la c.d. “manovra finanziaria”. Invero, negli accordi di ristrutturazione e nei piani attestati sono remote le situazioni in cui i soli flussi liberi generati dalla continuità aziendale consentono il rientro dell’indebitamento, in particolare se si parte da una situazione di diffuso e rilevante scaduto nei confronti dei creditori estranei. Occorre pertanto ricercare, in questi casi, risorse nuove ed ulteriori che potranno pervenire, a seconda dei casi, dalla dismissione di asset superflui, da nuova finanza concessa dai creditori aderenti, dall’apertura del capitale sociale a nuovi soggetti (gli stessi creditori, fondi specializzati nel segmento del distressed, operatori industriali). Nel concordato preventivo, l’esigenza può essere più contenuta, nel senso che lo stralcio generalizzato delle posizioni creditorie chirografarie può mitigare il fabbisogno; invero, anche nei concordati preventivi, superata una prima fase, volta al riequilibrio economico ed al risanamento dell’esposizione debitoria, segue spesso una fase successiva volta alla ricerca dello sviluppo funzionale al mantenimento della competitività sul mercato. È una fase in cui necessita un nuovo impulso agli investimenti, che non può essere autofinanziato posto che l’autofinanziamento viene devoluto al debito concorsuale e nella quale la ridefinizione degli assetti proprietari diventa un’esigenza sentita dalla stessa proprietà che ha condotto l’impresa al risanamento.

La proposta concordataria e la manovra finanziaria sono una parte essenziale del piano e ne determinano l’articolazione. La prudenza della stima delle risorse disponibili che possono essere messe al servizio del debito è essenziale per evitare che la normale volatilità del ciclo economico, il possibile ritardo nell’esecuzione dell’action plan, l’aggressività della concorrenza possano pregiudicare la fattibilità del piano in un momento in cui l’accesso a nuove linee finanziare è reso quanto meno arduo dal deteriorato merito di credito.

La corretta stima delle risorse presuppone l’individuazione dei fattori rischio e la misurazione delle loro conseguenze sulle grandezze primarie (volumi e costi) e su quelle derivate (flussi finanziari). Non può nemmeno prescindere da una corretta stima delle grandezze patrimoniali.

Negli accordi di ristrutturazione e nei piani attestati l’affidabilità della stima del fabbisogno finanziario è un prerequisito per costruire in modo coerente la ‘manovra finanziaria’. È fondamentale che tale proposta ai creditori si ponga a valle e non a monte della valutazione delle risorse finanziarie disponibili, residuanti dopo avere individuato le eventuali risorse occorrenti per la continuità e (nel caso di accordo di ristrutturazione) per il rientro dei debiti scaduti nei confronti dei creditori estranei. Le risorse finanziarie libere vengono messe al servizio dell’indebitamento e, laddove esse siano insufficienti, occorrerà o ridurre l’indebitamento attraverso equity swap o stralci ovvero ricorrere a risorse esterne.

Nei concordati preventivi, si tende ad utilizzare la leva del tempo di esecuzione della proposta: dilatando quest’ultimo, sarà possibile elevare il grado di soddisfazione dei creditori chirografari. Vi sono però alcuni limiti nell’impiego della leva ‘tempo’. Il primo è costituito dalla scarsa disponibilità degli organi della procedura ad accettare pagamenti dei creditori concorsuali che vadano oltre i 5 anni e comunque l’orizzonte temporale deve essere coerente con i vincoli esistenti (ad esempio la durata dei rapporti concessori in essere); un altro limite è costituito dall’esigenza di attivare quanto prima una seconda fase del processo di ristrutturazione dell’impresa volta ad avviare un programma di investimenti per contrastare le deteriorate difese competitive verso la concorrenza. Infatti, mentre i competitor possono destinare le risorse dell’autofinanziamento allo sviluppo, il debitore le deve destinare ai creditori concorsuali. Il che lo indebolisce. Si tende allora a trasferire il rischio di esecuzione sui creditori prevedendo l’assegnazione di strumenti finanziari. Sul punto si tornerà più avanti.

Gli elementi predittivi presentano, per propria natura, incertezza nel loro avveramento. Il rischio può essere misurato, può essere gestito, non può però mai essere azzerato. Misurare il rischio equivale anche a dare evidenza delle sue conseguenze nel caso in cui esso si manifesti. Le prove di resistenza ci dicono fino a che punto il piano sia in grado di reggere alla varianza alla quale vanno soggette le ipotesi (“assunzioni”) gravate da incertezza. In tal senso si è espressa la Cassazione, nella sentenza a SS.UU. n. 1521/2013, che, nell’affrontare il requisito di fattibilità del piano, lo definisce come la “possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati”, precisando che il giudizio di fattibilità economica deve essere reso in termini di “probabilità di successo del piano” e ha per oggetto anche “i rischi inerenti” allo stesso. I destinatari del piano devono essere in grado di percepire i “rischi inerenti” all’avveramento di quanto pronosticato nel piano e le relative possibili conseguenze. Infatti, perché la valutazione rimessa ai creditori “venga espressa correttamente e determini il giusto esito della procedura concordatizia, [si] presuppone che i creditori ricevano una puntuale informazione circa i dati, le verifiche interne e le connesse valutazioni … al cui soddisfacimento sono per l’appunto deputati a provvedere dapprima il professionista attestatore … e quindi il commissario giudiziale”.

Gestire il rischio significa porre più o meno in alto l’asticella di rottura del piano, dimensionare le cautele, nonché prevedere laddove possibile, soluzioni di mitigazione nel caso in cui il rischio si manifesti.

In questo quadro complessivo si colloca l’atto atecnico di “assicurare” che troviamo a più riprese nelle norme sulla composizione della crisi con riferimento ad un piano di continuità aziendale. Non è rendere certo ciò che certo non può mai essere, dipendendo da eventi meramente prognosticati, ma di renderlo altamente probabile.

Per i concordati preventivi, il punto cruciale è quello della natura, vincolante o meno, della proposta concordataria che inizialmente il legislatore aveva rimesso all’interprete. Una caratteristica del concordato in continuità soggettiva è quella della devoluzione ai creditori del concorso solo di una parte delle risorse disponibili, essendo la restante devoluta alla continuità, sicché in caso di sotto performance del piano, non vi sarebbe alcuno spazio per ridimensionare la proposta nell’ottica di preservare le risorse occorrenti alla continuità, al punto che  si è pacificamente ritenuto che la percentuale promessa, nel concordato con continuità soggettiva, fosse vincolante (cfr. Trib. Milano 1° marzo 2014, in Il Fallimentarista; Trib. Bergamo 10 aprile 2014, in Il caso.it; Trib. Trento 19 giugno 2014, in Il Fallimentarista): in pratica una sorta di “auto garanzia”.

Le modifiche successivamente introdotte al primo comma dell’art. 161 dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, che ha convertito il d.l. 27 giugno 2015, n. 83, appaiono coerenti con tale indirizzo. Esse richiedono l’indicazione nel piano de “l’utilità specifica … che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”. Se l’obbligazione di pagare assume natura vincolante, il piano, limitatamente ai flussi di cassa occorrenti a servirla, deve presentare un’elevata probabilità di successo. È la stessa elevata probabilità che, in seguito alle modifiche del 2015, è associata al raggiungimento della soglia minima di soddisfazione dei creditori chirografari per evitare l’ammissibilità di proposte concorrenti (quinto comma dell’art. 163) o di quella per proporre un concordato liquidatorio (quarto comma dell’art. 160). Per tutte queste ipotesi il piano deve reggere ad uno scenario ragionevolmente avverso. L’alta probabilità di avveramento non è nozione nuova ai tribunali di merito, che, in più occasioni (Trib. Firenze 9 febbraio 2012, in DeJure, 2012; Trib. Benevento 23 aprile 2013, in questa Rivista, 2013, 11, 1373 ss., con commento dell’Autore) l’avevano richiamata (quand’anche tali pronunce debbano essere ricondotte dall’ambito della mera valutazione del rischio a quello, forse più proprio, della correzione di errori di stima commessi in sede di redazione del piano e di sua attestazione). Resta comunque il fatto che l’espressione del grado di probabilità in termini quantitativi è esercizio estremamente arduo e comunque pervaso da un’elevata soggettività al punto che appare più opportuno adottare una valutazione qualitativa riferendo l’alta probabilità ad uno scenario “ragionevolmente” pessimistico del piano.

Elevata probabilità non equivale però a certezza. Da qui l’esigenza, ripetutamente sottolineata dalla Cassazione (oltre alla richiamata sentenza a SS.UU. n. 1521/2013, la Cass., Sez. I civ., 6 novembre 2013, n. 24970 in Il Caso.it), della rappresentazione dei rischi ai quali è esposto il piano.

Il debitore ben però potrebbe limitare la portata della propria obbligazione nei confronti di talune classi di creditori subordinandola al raggiungimento di predeterminati livelli di performance (mediante clausole di earn-out), ovvero riservandosi la facoltà di mitigarla in caso di peggioramento dell’andamento aziendale (mediante clausole di earn-in) o di assolverla con la mera assegnazione di uno strumento finanziario che dia diritto ad una condivisione dei risultati (v. R. Ranalli, La scelta dello strumento di risanamento, in questa Rivista, 5, 2012).

In questi casi, non è più richiesta un’elevata probabilità di conseguimento dei relativi flussi finanziari, ma è sufficiente che la probabilità di avveramento sia quella normale, propria di uno scenario c.d. “neutrale”.

Occorre però a maggior ragione che i rischi siano stati compiutamente rappresentati ai creditori, in coerenza con il cennato insegnamento della Cassazione. A tal fine il piano dovrebbe esprimere il valore della parte variabile riconosciuta ai creditori, sia essa costituita da una clausola di earn-out ovvero da uno strumento finanziario partecipativo, od ancora da uno strumento di equity. In buona sostanza si tratta, in un caso, del valore dell’opzione, nell’altro, di quello dello strumento finanziario, nel terzo, di quello economico del capitale sociale. In difetto, mancherebbe un elemento essenziale per l’espressione, in via informata, da parte del creditore interessato dell’adesione alla proposta. Infatti, solo il valore, espresso in coerenza con i rischi ai quali sono esposti l’impresa ed il piano, consente ai creditori di ponderare la convenienza della proposta e di esprimere validamente il proprio voto. Tale valutazione, che costituisce di fatto la rappresentazione in via sintetica dell’utilità specifica che si obbliga ad assicurare ai creditori, deve poi essere sottoposta al vaglio critico dell’attestatore e costituisce una delle basi per l’espressione del giudizio sul miglior soddisfacimento dei creditori.

Si è parlato sino ad ora del piano del concordato con continuità soggettiva. Un caso a sé, che necessita di qualche ulteriore riflessione, è quello del concordato con continuità indiretta con cessione dell’unica azienda. In un tale frangente ci si deve domandare se il concordato passi da una forma “auto garantita” con soddisfacimento fisso e predefinito ad una più affine a quella del concordato cessio bonorum. In entrambe sono infatti destinate ai creditori tutte le risorse che si rendono disponibili, quand’anche nella continuità indiretta una parte di esse possano essere consumate nella prosecuzione dell’attività nel breve orizzonte temporale sino alla cessione dell’azienda.

Ancora diversa è la forma indiretta del concordato con il conferimento dell’azienda, che si presta a vari epiloghi tra di loro assai difformi:

a) l’isolamento dell’azienda in vista della sua cessione per il tramite del bene di secondo livello costituito dal capitale sociale della conferitaria, che è in tutto e per tutto assimilabile al concordato con cessione di azienda;

b) l’isolamento in vista dell’ingresso di un nuovo socio che apporti solo una parte delle risorse per la continuità, destinando ai creditori anteriori unicamente i flussi di dividendi distribuiti dalla conferitaria e la liquidazione degli assets (primi fra tutti i crediti) non conferiti. In tal caso, il fatto che vengano mantenute a favore della continuità parte delle risorse esistenti comporta la natura vincolante della percentuale contenuta nella proposta con tutte le conseguenze dianzi rappresentate;

c) l’assegnazione delle azioni della conferitaria ai creditori, ai quali verrebbero così trasferite tutte le risorse disponibili, con una situazione di fatto affine a quella della conversione dei debiti in capitale sociale del debitore già rappresentata per il concordato con continuità diretta.

Alla luce delle considerazioni dianzi svolte con riferimento al grado di probabilità che deve caratterizzare le stime prognostiche del piano, pare corretto pervenire alla conclusione che solo nel caso sub b) il piano dovrebbe presentare un’elevata probabilità di avveramento e cioè essere riferito, sino al momento previsto per il soddisfacimento della proposta concordataria, a uno scenario pessimistico.

Il tema della probabilità di avveramento del piano assume connotazioni in parte diverse negli accordi di ristrutturazione per i quali la norma pone un distinguo tra i creditori estranei e quelli aderenti. Per i primi richiede che il piano sia idoneo ad assicurare l’integrale pagamento, nei 120 giorni, dei creditori estranei all’accordo, mentre per i creditori aderenti si limita a richiedere l’attuabilità dell’accordo.

Non deve stupire il fatto che la norma utilizzi l’espressione ‘assicurare’ solo con riferimento all’integrale pagamento dei creditori estranei e non anche in relazione ai creditori aderenti.

Per comprenderne le motivazioni di ciò occorre valorizzare l’impianto dell’istituto in esame rispetto ai canoni della formazione del consenso negoziale, la cui tutela è insita negli obblighi informativi e di trasparenza che il legislatore pone a carico del debitore proponente e che è condizione per la formazione da parte dello stesso di un consenso adeguatamente informato e quindi giuridicamente produttivo di effetti.

Si traccia così un distinguo tra coloro, i creditori aderenti, che hanno avuto le informazioni sui rischi ai quali è esposto il piano che, aderendo all’accordo, assumono in modo consapevole e coloro, i creditori estranei, che assistono passivamente all’adozione dello strumento di composizione della crisi.

Il fondamento contrattualistico del consolidato impianto tracciato dalla giurisprudenza a proposito del concordato preventivo consente la trasposizione, nei confronti dei creditori aderenti e di quelli coartati, dei medesimi principi all’ambito degli accordi di ristrutturazione (App. Torino, 3 agosto 2015, in Il caso.it.): “I principi applicabili nel concordato preventivo possono valere con riferimento agli accordi di ristrutturazione, attesa l’assenza della previsione di un contenuto tipico dell’accordo previsto dall’art. 182-bis r.d. n. 267/1942, nonché la natura negoziale dello stesso, ben più pregnante di quella di un concordato, considerato che neppure è riconducibile ad una procedura concorsuale, con la conseguenza, peraltro, che tale accordo non ha efficacia nei confronti dei creditori estranei, per cui il controllo del tribunale non può essere superiore a quello esercitato nell’ambito di un concordato preventivo ex art. 160 r.d. n. 267/1942” e, pertanto, “poiché l’articolo 182-bis l. fall. non indica quale sia il perimetro di valutazione del tribunale chiamato ad omologare l’accordo di ristrutturazione dei debiti, si dovrà far ricorso ai principi elaborati in tema di concordato preventivo dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la cennata sentenza n. 1521 del 2013 e, quindi, alla distinzione tra fattibilità giuridica e fattibilità economica, quest’ultima legata ad un giudizio prognostico di per sé opinabile e, quindi, tale da comportare un margine di rischio di cui debbono farsi esclusivo carico i creditori”.

La cennata differenza tra ‘assicurare l’idoneità’ e ‘attestare la attuabilità’ valorizza la differenza di posizione tra: i) i creditori estranei, per i quali deve essere accertata la “idoneità ad assicurare l’integrale pagamento” nei termini di legge; in relazione ad essi l’attestatore è chiamato ad accertare che, in base al piano e tenuto conto dei rischi e delle incertezze declinati nelle sensitivity analysis, ricorra una situazione di elevata probabilità di integrale pagamento entro i termini di legge; ii) i creditori aderenti, rispetto ai quali l’attestatore, alla luce delle considerazioni svolte, si limita a rappresentare i rischi di fattibilità del piano attraverso la misurazione dei loro effetti nelle analisi di sensitività. È questo lo strumento che consente di mettere a disposizione dei creditori aderenti le informazioni necessarie per aderire all’accordo avendo piena consapevolezza del punto di rottura del piano e cioè del punto oltre il quale i rischi individuati non permettono più al debitore di rispettare l’accordo nei confronti dei creditori aderenti.

Si tratta allora di comprendere quando vi sia effettivamente un consenso informato in un accordo di ristrutturazione, affinché si possa ritenere che il rischio di fattibilità sia stato assunto dai creditori che vi hanno aderito.

Elementi cardine dell’informativa sono il piano, ma principalmente l’attestazione che ne valuta criticamente il contenuto e la fattibilità. Se il piano, come purtroppo talvolta accade, non dovesse recare le analisi di sensitività ed i relativi effetti, e, in tali ipotesi, se l’attestatore dovesse rassegnare il proprio documento solo dopo l’adesione all’accordo, non vi sarebbe modo di poter sostenere che la decisione di aderire all’accordo di ristrutturazione sia stata assunta in via informata.

L’esigenza di un’informativa prima del raggiungimento dell’accordo, anche se a fini diversi, è rafforzata in caso di coercizione dei creditori finanziari riottosi di cui all’art. 182 septies. Tale norma, infatti, pone tra le condizioni per l’estensione coattiva degli effetti, il fatto che i creditori interessati “abbiano ricevuto complete ed aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonché sull’accordo e sui suoi effetti”. Ebbene, pare ragionevole ritenere che tra gli effetti dell’accordo vi siano anche le relative ricadute in termini di fattibilità del piano al manifestarsi del rischio inerente. È comprensibile il fatto che il legislatore abbia affrontato il tema dell’informativa solo nell’art. 182 septies e non si sia posto il problema nell’art. 182 bis; l’adesione volontaria propria del contesto in cui opera unicamente quest’ultimo rimette alla diligenza del creditore la disamina dell’informativa ad esso resa prima di aderire all’accordo per valutarne l’adeguatezza in termini di attuabilità dello stesso.

Alla luce delle considerazioni qui svolte emerge che il piano, da una parte deve dare dimostrazione che, anche nel caso di avveramento dei fattori di rischio individuati, non sia compromessa la capacità dell’esecuzione dell’integrale pagamento dei creditori estranei, dalla parte opposta, deve dare evidenza delle situazioni in cui, all’avveramento di tali rischi, sia compromessa la capacità di pagamento dei creditori aderenti e di quelli coartati.

Ne deriva un’ulteriore considerazione: affinché la dicotomia di trattamento tra creditori aderenti e creditori estranei sia effettiva occorre che la stessa manovra finanziaria sia costruita in guisa tale da prevedere che ogni pagamento ai creditori aderenti abbia luogo solo dopo il pagamento di quelli estranei.

Il rischio inerente ad un piano deriva da una molteplicità di fattori, alcuni endogeni (e pertanto in qualche misura controllabili), altri esogeni (ai quali l’impresa deve rispondere con contromisure tempestive).

Alcuni di questi fattori sono tra loro direttamente o inversamente correlati. La costruzione degli scenari deve pertanto essere preliminarmente sorretta dalla individuazione di eventuali correlazioni dirette od inverse per evitare che nel primo caso si sottovaluti il rischio e nel secondo lo si sopravaluti.

L’analisi di sensitività condotta attraverso scenari alternativi è stata richiamata in una recente pronuncia (Trib. Milano 5 luglio 2018, in Il caso.it). In verità, per i rischi correlati lo scenario dovrebbe essere uno solo e si dovrebbe procedere attraverso una valutazione unitaria dei diversi fattori di rischio. I fattori di rischio che invece non sono tra di loro correlati debbono essere misurati in modo congiunto. Ad esempio se un’impresa fosse soggetta a tre diversi fattori di rischio, due dei quali tra di essi correlati ed uno no, occorrerebbe misurare i primi due in modo unitario e verificare che cosa succeda se si dovesse manifestare anche il terzo fattore di rischio. Il terzo fattore di rischio non è infatti alternativo ai primi due. Rappresentare due scenari alternativi, quando non sia dimostrato, quanto meno razionalmente, che i diversi fattori di rischio non possono verificarsi congiuntamente, non fornisce al lettore del piano un’informazione utile per decidere.

L’indagine corretta da svolgere dovrebbe essere un’altra: essa dovrebbe essere di tipo matriciale in cui tutti i fattori di rischio vengono fatti interagire congiuntamente per individuare (anche graficamente nella matrice) la linea di frattura oltre la quale il piano non potrà essere eseguito.

L’esito dell’analisi di sensitività deve poi essere oggetto di una valutazione critica, principalmente da parte dell’attestatore, ma nei concordati preventivi anche da parte del commissario nella propria relazione di cui all’art. 172 l.fall. Il vaglio critico è volto ad accertare che, per le parti del piano delle quali deve essere assicurata la fattibilità (pagamento degli estranei, parte vincolante della proposta concordataria), il punto di rottura si collochi nell’area di remota probabilità di avveramento o, per esprimersi in termini più scientifici, nelle code dalla curva gaussiana.

Il piano in continuità aziendale deve condurre al superamento dello stato di crisi e, non oltre al suo orizzonte temporale, al riequilibrio della situazione finanziaria.

Peraltro l’orizzonte temporale non può essere esteso a piacere. L’affidabilità di un piano industriale dipende, infatti, dall’orizzonte temporale. Le Linee Guida per il Finanziamento delle Imprese In Crisi cit. sono chiare nel ritenere che, in caso di piani che prevedono il mantenimento della continuità aziendale: “L’arco temporale del piano, entro il quale l’impresa deve raggiungere una condizione di equilibrio economico-finanziario, non deve estendersi oltre i 3/5 anni, anche se eventuali pagamenti ai creditori possono essere previsti in tempi più lunghi”.

Il periodo indicato è quello che, dalla prassi aziendale, è giudicato sufficiente per risentire degli effetti economico-finanziari degli interventi strutturali, con la conseguenza che l’estensione a periodi più ampi non potrebbe far altro che incidere negativamente sulla qualità del piano, aumentando il grado di incertezza delle previsioni. Al punto che occorre ricercare un momento di equilibrio tra l’estensione dell’orizzonte temporale e il grado di affidabilità delle previsioni contenute nel piano.

Il riequilibrio finanziario, come già anticipato, deve essere raggiunto entro tale orizzonte temporale. Entro tale orizzonte deve essere stata rimossa la patologia e cioè, nel caso di accordo di ristrutturazione o di piano attestato, il debito nei confronti dei creditori estranei che presenta un ritardo di pagamento superiore ai limiti della fisiologia o, nel caso di concordato preventivo, il debito concorsuale. È invece possibile che il piano preveda tempi di rientro delle posizioni debitorie superiori all’orizzonte di piano; occorre però che si tratti dei debiti nei confronti dei creditori aderenti, in caso di accordi, ovvero dei creditori concorsuali con i quali è stato raggiunto un accordo para-concorsuale (magari assistito da un’attestazione ad hoc resa ai sensi dell’art. 67 l.fall.). Il che non impedisce il riconoscimento del riequilibrio finanziario a condizione che il rapporto tra l’indebitamento previsto a fine piano e i flussi finanziari liberi a regime consentano di ritenere sostenibile il debito.

Per il suo accertamento, tenuto conto del fatto che le previsioni più sono remote più sono incerte, occorre che siano assunti margini di prudenza adeguati ovvero che, in altre parole, il fabbisogno annuale occorrente per il sostenimento del debito non corrisponda all’intero ammontate dei flussi liberi astrattamente disponibili nell’ultimo anno di piano ma solo ad una frazione di essi. In caso contrario, dovrebbe essere convenuto con i creditori o chiaramente espresso nella proposta concordataria che il pagamento del debito è subordinato alla condizione della sussistenza dei flussi finanziari occorrenti.

Sulla scorta di queste considerazioni, negli accordi di ristrutturazione ed in quelli sottostanti ai piani attestati ben può essere prevista una maxi-rata finale di rientro del debito senza con ciò inficiare il riequilibrio finanziario. I creditori finanziari spesso, piuttosto che prevedere rimborsi del debito in tempi particolarmente lunghi che, per la loro atipicità, eccederebbero le facoltà deliberative degli organi deliberanti coinvolti, preferiscono, infatti, prevedere una rata finale c.d. bullet nell’ultimo anno dell’orizzonte di piano. Ebbene, l’attestatore può esprimersi in ordine al riequilibrio finanziario dell’impresa, in termini di capacità di sostenere il debito a regime, compreso quello costituito dalla rata bullet, con un approccio logico-argomentativo controllabile, deducendolo dalla disamina della capacità del debitore di destinare flussi di cassa in misura adeguata al servizio del debito senza pregiudicare la continuità aziendale e ciò nella prospettiva del riscadenziamento, in prossimità dell’orizzonte temporale del piano, della maxi-rata finale.

Questo è quanto emerge dal quadro esistente. Ci si deve domandare come cambierebbero il contenuto e le modalità di confezionamento del piano per effetto della legge delega 30 ottobre 2017, n. 155 se dovesse essere emanato, nello schema proposto dalla Commissione ministeriale appositamente costituita con le modifiche portate dall’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, il decreto delegato che va sotto il nome di Codice della Crisi e dell’Insolvenza.

Il secondo in particolare, introdurrebbe, agli artt. 56 (con riferimento ai piani attestati e, per effetto del richiamo del secondo comma dell’art. 58, agli accordi di ristrutturazione) e 87 (con riferimento ai piani concordatari), alcuni requisiti che non sono contenuti all’art. 67 ed all’art. 186 bis l.fall.

Si tratterebbe però di vere novità o di meri allineamenti alle best practices?

Con particolare riguardo ai piani attestati ed agli accordi di ristrutturazione l’art. 56 richiederebbe: la data certa; l’indicazione della situazione economico-patrimoniale e finanziaria dell’impresa; le principali cause della crisi; la definizione delle strategie di intervento e dei tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria; la specifica indicazione dei creditori e dell’ammontare dei crediti per cui si propone la rinegoziazione e lo stato delle eventuali trattative; gli apporti di nuova finanza; l’indicazione e i tempi delle azioni da compiersi che consentano di verificarne la realizzazione, nonché gli strumenti da adottare in caso di scostamento tra gli obiettivi e la situazione di fatto.

Trattasi, a ben vedere, di elementi che, prima ancora di essere già richiesti dalle best practices, alle quali si sono riferite le linee guida e i principi sino ad ora emanati, sono indispensabili al piano per permetterne l’attestazione e comunque per consentire al sistema bancario di assumerlo a base delle trattative.

In particolare, il riferimento, anche nei casi di piani attestati, alla specifica indicazione dei creditori e dell’ammontare dei crediti per cui si propone la rinegoziazione e lo stato delle eventuali trattative, pur costituendo formalmente una novità, non farebbe che allineare il quadro normativo al concreto operare, posto che anche i piani attestati, nella quasi totalità dei casi, presuppongono accordi con creditori qualificati.

Più rilevante apparirebbe il riferimento alla data certa del piano la quale dovrebbe essere sempre anteriore a quella del rilascio dell’attestazione; il che, se sotto un profilo astratto non dovrebbe costituire un momento di novità, sotto il profilo squisitamente procedurale comporterebbe l’adozione di specifiche accortezze nella successione formale della sottoscrizione dei diversi documenti al momento del closing dell’operazione.

Piuttosto è interessante osservare come la Commissione abbia colto la dianzi rappresentata distinzione tra strategie e azioni, lasciando anche intendere l’esigenza di individuare milestones, necessarie per l’individuazione degli scostamenti tra gli obiettivi e la situazione in atto. Invero, il richiamo agli ‘strumenti da adottare’ in caso di scostamenti impone una riflessione. Tali strumenti certamente si riferiscono non solo alle azioni di mitigazione dei rischi nel momento in cui essi dovessero verificarsi, ma anche agli automatismi di rimodulazione dell’indebitamento nei confronti degli aderenti destinati a scattare in caso di derive critiche rispetto al piano. Il che nella pratica ricorre, ad esempio, nel momento in cui sono previste clausole di infallibilità o clausole c.d. “pay if you can” od anche clausole che comportano, alla violazione di obiettivi di piano, il consolidamento del debito ovvero la sua automatica conversione in equity ovvero ancora lo stralcio di una sua parte.

La riflessione più interessante con riferimento agli strumenti da adottare in caso scostamenti sarebbe però un’altra, attinente alla loro portata. Parrebbe che la proposta previsione normativa suggerisca di pre-individuare un diverso strumento di composizione della crisi nel caso in cui il piano sottoperformi: ad esempio, una soluzione concordataria in continuità indiretta qualora il piano dell’accordo in continuità soggettiva si dimostri non più fattibile. È un punto questo non ancora sufficientemente indagato dalla dottrina che presenta il vantaggio di un maggiore allineamento con la realtà della ristrutturazione aziendale assicurando così la necessaria flessibilità ed anche maggiore trasparenza al percorso di risanamento.

Quanto ai piani concordatari, l’art. 87, coerentemente con la causa in concreto dello strumento concordatario, richiederebbe, in aggiunta ai requisiti dei piani di ristrutturazione non< concordatari, l’indicazione de: le possibilità di esperimento di azioni risarcitorie e recuperatorie con indicazione di quelle eventualmente proponibili sono nel caso della liquidazione giudiziale e le loro prospettive di esito; le ragioni per le quali la continuità aziendale è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.

Verrebbe invece meno l’esigenza della esplicita previsione della data certa, della specifica indicazione dei creditori e dell’ammontare dei crediti in quanto in re ipsa nella complessiva procedura concordataria e nella documentazione sottostante. Irrilevante sarebbe anche il mancato richiamo delle indicazioni sulla situazione economico-patrimoniale e finanziaria dell’impresa in quanto la sua previsione sarebbe pleonastica alla luce del fatto che costituisce il contenuto minimo che deve possedere un piano d’impresa. Resta, invece, l’esigenza dell’indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla continuità aziendale, delle risorse finanziarie e delle relative modalità di copertura, attualmente previsti dall’art. 186 bis.

L’elemento di novità sarebbe invece costituito dal fatto che dovrebbe essere lo stesso piano a contenere l’indicazione del miglior soddisfacimento dei creditori; anche qui però la riforma parrebbe cogliere gli stimoli che provengono dalla prassi più avanzata che suggerisce di esporre già nel piano il vantaggio per i creditori.

In conclusione, lo schema del Codice non sembrerebbe aggiungere nulla alle best practices in materia di redazione dei piani di risanamento che trovano rappresentazione nelle diverse linee guida nel tempo emanate. Se il Codice verrà emanato nel testo ultimo licenziato dall’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia si avrà una maggiore aderenza del disposto normativo ai comportamenti maggiormente virtuosi, con una crescente attenzione per i temi del risk assessment, delle milestones e dei rimedi dinamici la cui adozione dovrebbe essere già prevista nel piano stesso in caso di scostamenti rilevanti nel corso della sua esecuzione.

(Altalex, 9 gennaio 2019)

 

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