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PER RESTARE A GALLA – La FCA Italy ha attivato la richiesta di una linea di credito da ben 6,3 miliardi di euro con Intesa Sanpaolo come principale finanziatore per far fronte alla crisi legata alla pandemia da coronovirus che ha fermato le attività del settore automobilistico per due mesi. L’operazione verrebbe condotta con il supporto della Sace (la società per azioni del gruppo italiano Cassa Depositi e Prestiti, specializzata nel settore assicurativo-finanziario) in grado di fornire una garanzia pubblica per l’80% dell’importo. In base alle disposizioni del Decreto Liquidità l’ammontare della linea di credito dovrebbe essere pari al 25% del fatturato consolidato delle società industriali del gruppo FCA in Italia.

UNA FILIERA FONDAMENTALE – Una quantità di denaro ingente che senza dubbio aiuterebbe il più grande gruppo industriale italiano a superare questo momento di difficoltà, permettendo di programmare una ripartenza con maggior tranquillità. Per le fabbriche, ovvio, ma anche per l’intera filiera dell’indotto composta da decine di migliaia di lavoratori. Nel comunicare l’avvio della procedura di richiesta del finanziamento, la FCA ha ricordato che è la più grande società industriale in Italia, che impiega in maniera diretta 55.000 persone in 16 stabilimenti produttivi e 26 poli dedicati alla ricerca e sviluppo. Inoltre, più di 200.000 posti di lavoro nelle 5.500 società fornitrici italiane altamente specializzate, sono direttamente legati al successo della continuità operativa della FCA in Italia. Altri 120.000 posti di lavoro in 12.000 imprese di tutte le dimensioni sono coinvolti nei concessionari e nell’assistenza ai clienti a supporto dell’industria automobilistica italiana. Inoltre, il 40% del fatturato annuale dal settore italiano della componentistica automotive (pari a 50 miliardi di euro) deriva dalle commesse di FCA. 

È GIUSTO? – Naturalmente, la notizia ha suscitato polemiche. Per esempio, la CGIA (l’associazione che rappresenta artigiani e piccole imprese) non ritiene corretto che un gruppo che ha spostato la propria sede legale in Olanda – e il domicilio fiscale nel Regno Unito – richieda un aiuto allo Stato, e sarebbe giusto perciò che, analogamente alla Francia, anche l’Italia stabilisse di escludere dai contributi statali le società con sedi nei Paesi che offrono un regime fiscale più conveniente. Diteci la vostra nei commenti qui sotto.



 

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