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Una recente pronuncia della Cassazione ha ribadito il principio secondo cui le amministrazioni possono procedere al recupero delle somme indebitamente erogate ai dipendenti pubblici.


Il caso riguarda un comune e il suo ex dirigente, e si è concluso con la decisione della Suprema Corte attraverso l’ordinanza n. 17320 del 2024.

L’ente aveva avviato una causa contro un ex dirigente, ottenendo dal Tribunale un decreto ingiuntivo per il recupero di oltre 65mila euro. La cifra in questione era stata versata al dipendente sotto forma di retribuzioni di posizione e di risultato che, successivamente, erano state ritenute non dovute. Queste somme, secondo il Comune, non trovavano riscontro nella contrattazione collettiva e mancavano di copertura finanziaria adeguata nei fondi destinati. Il Tribunale, in seguito all’opposizione dell’ex dirigente, ha ridotto l’importo da restituire a circa 34mila euro, tenendo conto delle ritenute fiscali e della prescrizione parziale della somma.

Il lavoratore ha successivamente impugnato la decisione davanti alla Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, senza successo. La Corte ha infatti respinto il ricorso dell’ex dirigente, confermando la sentenza di primo grado. Anche l’appello incidentale del Comune, che chiedeva di mantenere la somma originaria di oltre 65mila euro, è stato rigettato.

Recupero somme indebitamente erogate ai dipendenti pubblici: la sentenza della Cassazione

Il caso è giunto infine alla Corte di Cassazione, dove il dipendente ha presentato ricorso basandosi su due punti principali. Il primo riguardava un presunto omesso esame di documenti chiave, tra cui una deliberazione della Corte dei Conti, che a suo avviso non copriva il periodo in cui aveva lavorato per il Comune. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile tale motivo, affermando che il ricorso non aveva evidenziato un fatto decisivo per il giudizio, ma contestava piuttosto l’interpretazione di uno dei documenti.

Il secondo punto sollevato dal ricorrente faceva riferimento all’art. 4 del Decreto Legge n. 16 del 2014, convertito in legge n. 68 del 2014. L’ex dirigente sosteneva che la norma prevedesse modalità diverse per il recupero delle somme indebitamente percepite, escludendo l’azione diretta contro il dipendente. La Cassazione ha però respinto questa interpretazione, confermando che la pubblica amministrazione può procedere al recupero delle somme direttamente dal lavoratore, come stabilito dall’art. 2033 del Codice Civile. A sostegno di questa tesi, la Corte ha richiamato precedenti pronunce (Cass. nn. 23419/2023 e 17648/2023).

Conclusioni e implicazioni

Con questa decisione, la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’ex dirigente, confermando la legittimità dell’azione intrapresa dal comune per il recupero delle somme non dovute. La sentenza ribadisce un orientamento consolidato in giurisprudenza: le somme erogate senza titolo ai dipendenti pubblici devono essere restituite, indipendentemente dalle eventuali lacune nella contrattazione collettiva o nelle delibere interne dell’amministrazione.

La decisione sottolinea inoltre che l’articolo 4 del D.L. 16/2014 non limita il diritto delle amministrazioni di richiedere il rimborso direttamente dai dipendenti, confermando così il principio della condictio indebiti nei rapporti di lavoro pubblico. Le spese legali sono state poste a carico del ricorrente, e il procedimento ha comportato anche il raddoppio del contributo unificato, come previsto dal DPR n. 115/2002.

Questa sentenza avrà probabilmente un impatto sulle controversie future riguardanti le retribuzioni indebitamente corrisposte ai dipendenti pubblici, stabilendo un importante precedente per i casi simili.

Il testo della sentenza

Qui il documento completo.

 

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