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Adista Segni Nuovi
n° 34 del 05/10/2024

Se fino a qualche tempo fa il conflitto fondamentale sulla crisi climatica era con i negazionisti, ovvero coloro che rifiutavano l’idea che un cambiamento del clima fosse in atto, oggi l’asse del confronto si è spostato e, per certi versi, si è radicalizzato.

Perché oggi i nemici principali della transizione ecologica non sono quelli che ne negano la fondatezza – d’altronde, basta osservare la quotidianità per prenderne atto – bensì quelli che pensano che essa sia affrontabile senza mettere in discussione i paradigmi che l’hanno prodotta, ovvero un sistema economico dettato dal profitto e dall’imperativo della “crescita” e un’organizzazione sociale basata sulla competizione.

Ma le contraddizioni sistemiche sono talmente profonde che arrivati al dunque, i nemici della transizione ecologica sono costretti a gettare la maschera.

È il caso di Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, che nel suo primo intervento all’assemblea annuale, è riuscito ad attaccare in maniera netta il pur timido Green New Deal dell’Unione europea con queste parole: «Il Green Deal è impregnato di troppi errori che hanno messo e mettono a rischio l’industria. (…) Noi riteniamo che questo non sia l’obiettivo di nessuno. La decarbonizzazione inseguita anche al prezzo della deindustrializzazione è una débacle, (…) L’industria, italiana ed europea, difenderà con determinazione la neutralità tecnologica, chiedendo un’applicazione più realistica e graduale del Green Deal».

La premessa che sottende a questa “dichiarazione di guerra” è sempre la stessa, ribadita da Orsini in apertura del suo discorso: «Gli imprenditori e le imprese, nel libero mercato, nella concorrenza e nella trasparenza, sono il grande motore dello sviluppo e della crescita. Questo deve essere il punto di partenza di ogni ragionamento».

Che questo punto di partenza non corrisponda alla realtà da oltre tre decenni – basti vedere l’esponenziale crescita dei mercati finanziari per dedurre come la gran parte delle ingentissime risorse date dai governi alle imprese non abbia intrapreso la strada degli investimenti sull’innovazione tecnologica, bensì la scorciatoia dell’approdo alle transazioni speculative – sembra non importare alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha subito chiosato: «Sono d’accordo con Orsini sui risultati disastrosi frutto di un approccio ideologico del green deal europeo: decarbonizzazione al prezzo di deindustrializzazione, ha detto, è una debacle, ed è così».

Queste posizioni non sono tuttavia isolate, perché trovano indiretto supporto tanto nella presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, quanto nel mastodontico rapporto sulla competitività europea, presentato recentemente – e accolto con ovazioni trasversali – da Mario Draghi.

La prima sembra ormai avvinta da una “sindrome bipolare”, in seguito alla quale da una parte continua a declamare il Green New Deal come l’asse portante del proprio mandato, mentre dall’altra ha decisamente svoltato nella direzione del suo esatto contrario, ovvero quello di un’Europa basata sull’economia di guerra, per la quale reclama un esponenziale aumento delle spese militari a livello di Unione europea e di singoli Stati membri.

Al di là di ogni – e comunque fondamentale – considerazione etica e politica, basterebbe ricordare alla presidente della Commissione Europea di come un solo anno di guerra fra Russia e Ucraina abbia comportato in termini ambientali l’emissione di 120 milioni di tonnellate di CO2, pari a un quarto del totale di emissioni dovute a tutto il traffico automobilistico europeo.

Ma ovviamente la posizione più autorevole in questo campo è quella sostenuta da Mario Draghi che con il suo rapporto fa una disamina pesante – e per alcuni tratti condivisibile – della situazione dell’Unione europea.

Peccato che non venga tratta alcuna coerente conseguenza da tutto ciò, a partire dal fatto che l’Europa attuale è esattamente quella disegnata da persone come Mario Draghi, se non proprio dal suo nascere, sicuramente dal Trattato di Maastricht (1992) in poi. Ovvero un progetto continentale interamente basato sull’ideologia della crescita, sulla cultura dell’impresa, sull’austerità e sul drastico ridimensionamento dell’intervento pubblico a tutti i livelli.

Nel suo rapporto Draghi chiede un’unità d’azione europea, ma ancora una volta basata sul medesimo paradigma, per il quale considera strategici tutti gli investimenti sulla difesa e gli armamenti e dichiara che la transizione ecologica dev’essere unicamente finalizzata all’aumento della competitività e non perseguita come viatico di un altro modello sociale, ecologico e relazionale.

Siamo immersi dentro le plurime crisi di un modello che rischia di pregiudicare in maniera profonda il futuro di tutte e di tutti, attraverso la guerra, la crisi eco-climatica e la diseguaglianza sociale.

In questo contesto, occorre far tesoro delle parole di Albert Einstein, quando diceva «Non è possibile risolvere i problemi utilizzando lo stesso modello di pensiero che li ha creati» e mettere in campo il rovesciamento della “cosmogonia” della narrazione liberista, che considera l’economia come l’universo dentro il quale tutto accade, la società come un luogo unicamente deputato all’estrazione di valore, la natura come serbatoio esterno da cui estrarre beni all’infinito. L’inversione di rotta deve al contrario affermare come sia la natura l’universo dentro il quale tutto accade, la società sia il luogo dove le persone decidono come organizzare la vita comune e l’economia torni a essere semplicemente il luogo dentro il quale la società determina come produrre e scambiarsi beni e servizi.

Ma occorre anche una rivoluzione culturale per rovesciare l’ideologia liberista dell’autonomia dell’individuo. Una narrazione che esalta l’indipendenza e che favoleggia dell’uomo artefice del proprio destino e dell’uomo “che non deve chiedere mai”. Uomo non a caso, verrebbe da dire. Perché la vita reale non è fatta di indipendenza, bensì di relazione.

È dunque il paradigma della cura – di sé, dell’altra, dell’altro, del vivente, del pianeta – quello su cui può essere riorganizzata una società capace di futuro e radicalmente alternativa a quella attuale, basata sul paradigma del profitto.

Si tratta di ripensare un altro modello ecologico, sociale e relazionale a partire dal “prendersi cura di” come riconoscimento della vulnerabilità dell’esistenza e dell’interdipendenza fra le persone e fra queste e la natura dentro la quale sono immerse. E si tratta del “prendersi cura con” come nuovo fondamento della relazione sociale e base di una nuova democrazia.

Marco Bersani è socio fondatore di Attac Italia (movimento per una nuova idea di economia pubblica e partecipativa), è stato tra i promotori del Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua e della campagna “Stop Ttip Italia

 

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