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ROMA. Dalla maxi operazione fiscale che comprende banche, assicurazioni e grandi imprese il governo conta di avere nel 2025 una liquidità maggiore per circa tre miliardi di euro. A queste risorse bisogna aggiungere i due miliardi di obiettivo minimo dalla spending review dei ministeri e almeno un miliardo dalla rimodulazione delle agevolazioni. Si può dunque ritenere che il target credibile a cui punta il Tesoro si attesti sui 6 miliardi di euro. Una dote consistente che comunque non basta a definire le coperture della manovra da 25 miliardi, visto che i fondi che mancano per chiudere il bilancio si aggirano intorno ai 10 miliardi.

Non bisogna però dimenticare il concordato preventivo biennale che interessa una platea potenziale di 2,7 milioni di partite Iva. Il progetto del vice ministro Maurizio Leo è quello di far emergere il gettito nascosto degli autonomi a fronte di una tassa piatta tra il 10 e il 15% sulla differenza di reddito da versare. Il Mef non ha mai pubblicato stime su quanto si aspetta di incassare dal concordato, ma voci di corridoio hanno sempre quantificato un recupero di due miliardi. A cui si aggiungerebbero, secondo le più ottimistiche previsioni del centrodestra, altri due miliardi dal ravvedimento speciale, il condono sulle somme non versate tra il 2018 e il 2022.

Tornando ai «sacrifici» evocati da Giorgetti, che ha ammesso di voler colpire i maggiori profitti di società e imprese per sostenere i conti pubblici, continua il confronto con le banche con cui è aperto un tavolo da tempo. È ormai chiaro che la strada imboccata è quella di rinviare le deduzioni degli istituti di credito sulle Dta, le imposte anticipate iscritte a bilancio. Una partita che dovrebbe concludersi con un accordo una tantum tra Tesoro e Abi su un valore di poco più di un miliardo, che si tradurrebbe in più liquidità nelle casse dello Stato. Le banche non ci rimetterebbero un euro, semplicemente accetterebbero di recuperare il credito d’imposta più avanti nel tempo, il che consentirebbe al governo di posticipare una spesa di qualche mese (o forse un anno) e quindi avere più soldi da spendere. Al tavolo si è affacciata anche un’ipotesi di intervento sui bonus dei manager, ancora tutta da approfondire.

La partita di giro è replicabile anche per i crediti di imposta delle compagnie assicurative o per le imprese di altri settori. In questo caso il discorso è un po’ più lungo. Giorgetti non si è sbilanciato. Tuttavia, l’esempio che ha citato due giorni fa è abbastanza emblematico: «Con tutte le guerre che ci sono adesso, chi produce armi se la passa abbastanza bene perché ha aumentato gli utili». E qui veniamo alla strategia che riguarda le grandi imprese: al Mef stanno studiando un prelievo addizionale Ires tra lo 0,5% e l’1% che colpisca tutti al di sopra di determinate soglie di profitto. Una sorta di riedizione della Robin Hood Tax ideata da Giulio Tremonti nel 2008, come ha scritto ieri questo giornale, su cui però è arrivato lo stop di Giorgia Meloni. La premier punta a una tassa sui colossi del web. Il piano lo spiega la sottosegretaria al Mef Lucia Albano: «Vogliamo alzare il prelievo sulle grandi aziende dell’e-commerce che hanno la sede legale fuori dall’Italia e pagano di meno», annuncia l’esponente di Fratelli d’Italia.

Comunque, se con i vertici dell’Abi un’intesa di massima c’è già, un patto con le aziende è tutto da costruire. E ieri Giorgetti ha incontrato il leader di Confindustria per iniziare a tratteggiare un percorso da seguire insieme. «L’incontro è andato bene, sono soddisfatto», sottolinea Emanuele Orsini. La via maestra sembra quella del riordino delle tax expenditures. Le forbici dovrebbero andare a tagliare alcune agevolazioni che interessano le imprese, in cambio l’esecutivo si impegnerebbe a rafforzare gli investimenti o la decontribuzione in alcuni settori. «Noi siamo disponibili a ripensare una parte delle fiscal expenditures», confida il presidente di Confindustria, che si aspetta un aiuto «sui neo assunti e delle premialità Ires legate agli investimenti».

 

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