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Care colleghe e cari colleghi, 

buongiorno.

Ci troviamo alla vigilia della formazione della Legge di Bilancio 2025, un momento cruciale in cui verranno prese decisioni significative anche per le nostre pensioni: in particolare per quanto riguarda la rivalutazione rispetto all’inflazione. Dobbiamo quindi prepararci a difendere con fermezza i nostri diritti e interessi, proprio come fanno tutte le altre categorie sociali.

Consentitemi, allora, di introdurre il dibattito di questa riunione cominciando dall’evoluzione della perequazione delle pensioni negli ultimi 25 anni, e concludendo sulle prospettive del prossimo anno, che, come dirò alla fine, non si presentano come un giardino di rose e fiori.

Evoluzione normativa perequazione

La normativa che regola la rivalutazione delle pensioni in base all’inflazione ha subito molte modifiche nel tempo. La Legge n. 448/1998 ha introdotto, dal 1999, un nuovo meccanismo di rivalutazione automatica delle pensioni per recuperare l’inflazione. Questo sistema, ulteriormente perfezionato con la legge n. 388/2000, prevede che le pensioni siano rivalutate al 100% dell’inflazione fino a 4 volte il trattamento minimo (TM), al 90% per le pensioni comprese tra 4 e 5 volte il TM, e al 75% per quelle superiori a 5 volte il TM. Da notare che, fino al 2011, il sistema era basato su aliquote decrescenti a “scaglioni”, ma dal 2012 si è passati a un sistema a “fasce” di importo, sistema in cui viene applicata un’unica aliquota sull’intero importo della pensione. Sebbene nel 2022 ci sia stato un breve ritorno al sistema degli “scaglioni”, in questi ultimi due anni è stato ripristinato quello “a fasce” con conseguente perdita di reddito significativa per i pensionati.

Le misure di emergenza

Negli ultimi decenni, i vari Governi hanno giustificato le deroghe dal sistema “standard”, descritto prima, con diverse motivazioni: dalla necessità di sostenere le pensioni più basse, all’introduzione di pensioni anticipate, fino alle pressioni internazionali per contenere la spesa pensionistica. 

Il vero motivo di queste decisioni è stata sempre l’emergenza finanziaria

Chiariamo: in situazioni di emergenza, le deroghe alle regole standard possono essere comprensibili e accettabili. Tuttavia, quando queste deroghe si ripetono con continuità, le preoccupazioni dei pensionati che qualcosa non vada sono più che giustificate. Perché l’emergenza ha trasformato la norma che regola il meccanismo di restituzione dell’inflazione in un sistema nuovo, eccezionale, che anno dopo anno danneggia una minoranza di cittadini pensionati che non hanno nessuna possibilità di recuperare le perdite subite né sufficiente forza e strumenti di reazione (contrattazione, manifestazioni pubbliche, sciopero). 

L’applicazione della perequazione negli ultimi 25 anni

Anche se le leggi di bilancio ancor oggi continuano a fare riferimento alla Legge n. 448/1998, nella realtà questa legge è stata disattesa da tempo. Da oltre vent’anni, infatti, altre norme hanno prevalso, soprattutto per quanto riguarda le pensioni superiori a 4 volte il minimo INPS. Questo ripetuto riferimento alla Legge n. 448/1998 è quantomeno irrilevante perché il meccanismo applicato è completamente stravolto e la norma è costantemente modificata nelle percentuali di valorizzazione. Si procede mediante un sistema normativo arbitrario, pressoché senza limiti prestabiliti, perché tempo e misure sono affidate alla sola discrezionalità del Governo di turno che, anno dopo anno, stabilisce se e in che misura ai pensionati con trattamenti superiori a 4 volte il minimo possa essere concesso l’adeguamento pensionistico.  

È pur vero che sono passati molti anni dalle promesse e dagli accordi del 1998, ma neppure il protocollo firmato tra Governo e Parti Sociali del 28 settembre 2016 è stato rispettato. In tale accordo era stato stabilito che sarebbe stato ripristinato il meccanismo della Legge n. 388/2000 a partire dal 2019, prevedendo anche il ritorno al sistema di perequazione per “scaglioni di importo” e l’abbandono di quello basato sulle “fasce di importo”. Ma nessuno si è fatto carico di far rispettare questo accordo. Lo sforzo massimo è stato quello di mettere al riparo le pensioni fino a 4 volte il minimo, pensioni che riguardano 12.550.000 pensionati su 16.100.000, il 77,9% del totale.

Chi sta pagando il prezzo di questa situazione sono 3.550.000 pensionati. Una minoranza, dunque, che viene sistematicamente discriminata dopo aver pagato per una vita intera elevati contributi per guadagnarsi una pensione più dignitosa. Questo modo di operare dei Governi viene sostenuto da una narrativa ingiusta, e soprattutto ostile, che dipinge i titolari di pensioni medio-alte come “privilegiati”. Ormai le pensioni più elevate sono raccontate come un disvalore sociale. In realtà questi pensionati sono vittime di un trattamento discriminatorio e continuano a subire disposizioni ingiuste. 

E veniamo ai giorni nostri. Il sistema di perequazione delle pensioni introdotto per gli anni 2023 e 2024 è il peggiore mai applicato. Il Governo ha infatti deciso di passare da tre “scaglioni” a sei “fasce”. Questa drastica riduzione dell’indicizzazione, giustificata come una misura necessaria per combattere l’inflazione, ha ulteriormente accentuato la perdita del potere d’acquisto delle pensioni.

Come si concilia tutto questo con i principi di equità e di non discriminazione che leggiamo nella Costituzione? Sappiamo bene che la maggior parte dei ricorsi contro le deroghe dei Governi al sistema “standard” è stata respinta dalla Corte Costituzionale che, utilizzando il criterio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali, ha, di fatto, sostenuto le ripetute misure depressive dei Governi, legittimando il sacrificio degli interessi dei pensionati. 

Bene hanno fatto le organizzazioni sindacali della dirigenza e delle alte professionalità e i pensionati interessati che non si sono dati per vinti e hanno presentato ancora nuovi ricorsi contro le norme della Manovra di Bilancio 2023-2024 riguardanti la perequazione delle pensioni. 

Abbiamo appreso dalla stampa che il 6 settembre, a seguito di un ricorso presentato da un collega pensionato, la Corte dei Conti, sezione Toscana, ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale delle norme riguardanti la rivalutazione delle pensioni stabilite nella Legge di Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e Bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025. 

Mi pare utile riferire su alcune motivazioni importanti contenute nell’Ordinanza del giudice contabile:

  • L’Ordinanza evidenzia che, al momento della promulgazione della Legge di Bilancio, non sussisteva l’emergenza finanziaria e che la riduzione dell’adeguamento delle pensioni, introdotta per la prima volta in una manovra di bilancio espansiva, aveva lo scopo di finanziare misure necessarie sia per affrontare l’emergenza sanitaria, sia per sostenere la ripresa economica successiva. Tuttavia – spiega il giudice – si nota una contraddizione tra l’obiettivo di sostegno e la decisione di limitare l’adeguamento delle pensioni all’inflazione, penalizzando così una delle categorie più vulnerabili: i pensionati. Peraltro, i tagli alla rivalutazione delle pensioni sono stati usati per finanziare interventi minori in ambito lavorativo, familiare e sociale.
  • Il giudice contabile mette, poi, in chiara evidenza che, rispetto a chi lavora, i pensionati hanno meno possibilità di proteggersi dall’inflazione o di recuperare le perdite. Per questo motivo, il loro potere d’acquisto dipende quasi interamente dal meccanismo di indicizzazione delle pensioni. Va tenuto conto che, in fondo, la capacità di proteggere le pensioni dall’inflazione è uno dei principali vantaggi di un sistema previdenziale pubblico.
  • Nell’Ordinanza si sottolinea, ancora, che penalizzare i pensionati con trattamenti più elevati significa danneggiare non solo le loro aspettative economiche, ma anche svalutare la loro dignità. Tenuto conto delle modifiche peggiorative del meccanismo di adeguamento, le pensioni più alte non vengono considerate dal legislatore come un giusto riconoscimento per l’impegno e le capacità dimostrate durante la vita lavorativa, ma vengono trattate come un privilegio, e, pertanto, sacrificabili in nome di un’asserita equità tra generazioni.
  • L’Ordinanza evidenzia, infine, che il lavoro, come contributo al progresso sociale, richiede il rispetto del principio di proporzionalità tra retribuzione e qualità del lavoro svolto. Questo principio deve essere mantenuto anche in favore dei pensionati, al fine di tutelare la loro dignità, che non va sminuita una volta conclusa l’attività lavorativa.

In sintesi, per la Corte dei Conti, le pensioni sono frutto del lavoro. E penalizzarle da un certo importo in su significa «disincentivare il lavoro regolare, favorire il nero». Significa mandare un messaggio sbagliato ai giovani: non vale la pena studiare e aspirare a lavori ben retribuiti, anche dirigenziali, se poi la pensione sarà tagliata. Per il Governo del “merito” un altolà non da poco.

 

La perequazione del prossimo anno

Arrivati a questo punto, guardando quello che è accaduto finora, dobbiamo portare l’attenzione sull’impostazione del Bilancio 2025, partendo da due fatti importanti: 

  • Primo: alla fine del 2024 il tasso di inflazione medio sembra aggirarsi intorno all’1,6%. 
  • Secondo: stando alle dichiarazioni di fonte governativa, leggiamo che il Governo rivendica i molti successi ottenuti nel corso dei due anni alla guida del Paese sul piano economico, finanziario sociale. In particolare:
    • crescita del reddito reale delle famiglie italiane, secondo i dati OCSE il reddito reale delle famiglie è aumentato del 3,4%, il più forte incremento tra tutte le economie del G7.
    • Aumento delle retribuzioni orarie, l’indice delle retribuzioni orarie è salito del 3,1% nel 2023.
    • Miglioramento dei tassi di occupazione, i tassi di occupazione sono cresciuti, con un calo significativo della disoccupazione, soprattutto giovanile.
    • Inflazione sotto controllo, il Governo sottolinea che l’inflazione è sotto controllo.
    • Incremento delle entrate tributarie e contributive, da gennaio a maggio 2024, le entrate tributarie e contributive hanno registrato un incremento di oltre 21 miliardi di euro, grazie anche all’utilizzo di nuove tecnologie per il monitoraggio dei pagamenti e l’incrocio dei dati.

A fronte di questi risultati, non potremmo che rallegrarci, perché descrivono un’Italia in buona salute, un Paese che è uscito dalle tante emergenze. In questo clima dovremmo aspettarci anche noi una svolta positiva. I dati che sono stati rivendicati potrebbero finalmente permettere di ripristinare il meccanismo standard di rivalutazione a scaglioni delle pensioni: 100%, 90%, 75%, garantendo ai pensionati ciò che spetta loro di diritto. Ma non è così. Abbandonate ogni aspettativa! I proclami dei buoni risultati economici, finanziari e sociali non valgono per noi. Per noi hanno un altro significato, almeno stando a una dichiarazione della Presidente del Consiglio della settimana scorsa, quando ha detto che in questi due anni, la rivalutazione al 120% per le pensioni minime è stata ottenuta facendo crescere di meno le pensioni che erano molto alte, un’opera secondo me equa, – ha detto Meloni – che continueremo a fare perché sicuramente queste persone sono quelle che hanno maggiore bisogno di aiuto da parte dello Stato”. 

Questo significa che la supervalutazione delle pensioni minime, effettuata gli scorsi 2 anni, sarà ripetuta quest’anno e che le pensioni superiori a 4 volte il minimo subiranno lo stesso destino degli scorsi 2 anni: rivalutazioni irrisorie. Una scelta in perfetta linea con la ricerca del consenso elettorale, anche a costo delle più macroscopiche ingiustizie e discriminazioni che il contenuto dell’Ordinanza della Corte dei Conti toscana mette in grande evidenza. Perché si tratta di provvedimenti che stravolgono l’essenza del nostro sistema pensionistico. In sostanza si prendono i soldi della previdenza e si trasformano in soldi per l’assistenza. A parte il fatto che non esiste un’anagrafe nazionale dell’assistenza, per cui i soldi vanno a finire anche nelle tasche di chi non ne ha diritto: abusivi, imbroglioni, evasori, lavoratori in nero, e chi più ne ha più ne metta, ma qui si tratta di un fatto abnorme anche sul piano costituzionale. Perché l’assistenza è una manifestazione, un’espressione della solidarietà. E i doveri di solidarietà obbligano tutti i cittadini, non soltanto i pensionati. I soldi dell’assistenza vanno presi dunque dalla fiscalità generale, non esclusivamente dalle tasche dei pensionati. Il fatto di tenere insieme, nello stesso calderone di bilancio, assistenza e previdenza è proprio l’astuta posizione della politica per non mollare la presa. In sostanza per avere mano libera e spostare i soldi dal capitolo previdenza al capitolo assistenza senza incontrare ostacoli sul piano delle procedure contabili.

Insomma, finita l’emergenza ancora una volta saremo noi, una minoranza di pensionati, ad accollarci l’assistenza, in una logica tutta fuori controllo che risponde a un solo criterio: chi ha lavorato e versato i contributi, chi ha pagato e paga le tasse deve mantenere non solo chi ha veramente bisogno ma anche tutti gli scrocconi e abusivi della previdenza. Questi sono molti e, soprattutto, sono una grande massa di elettori. Una vera mostruosità giuridica e morale rispetto alla quale è sperabile vi sia, finalmente, una chiara e definitiva presa di posizione politica e sindacale. 

Conclusione

Concludo richiamando, a nome di tutti voi, l’attenzione e l’impegno dei vertici della nostra Organizzazione perché tengano in buona evidenza la deriva che sta prendendo la nuova manovra di bilancio e si impegnino nel contrastare i provvedimenti che, ancora una volta, si stanno preparando contro noi pensionati.

Diciamo finalmente basta a promesse non mantenute e a continui sacrifici imposti a noi pensionati! Come ha detto il collega Marco Panti, il ricorrente alla Corte dei Conti: “Abbiamo lavorato una vita. Noi pensionati non possiamo diventare il bancomat dello Stato”.

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