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Il legislatore come il regista di un sequel di successo sta per mettere mano, l’ennesima, al Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza (CCII) con il «Decreto correttivo». La trama del film è sempre quella: cercare di rendere veramente possibile il risanamento e la ripartenza dell’impresa.

Il vero problema è che questa rinascita sembra auspicarla, insieme all’imprenditore, solo il legislatore, mentre il resto del sistema appare ancora poco interessato a quella che appare come una «Mission Impossible». Vediamo il cast degli attori con i rispettivi ruoli, prerogative e scopi.

Il  protagonista  non può che essere sua maestà Unione Europea. Che nel 2019 con la Direttiva Insolvency detta le regole di come vadano gestite le crisi. Il coprotagonista, Italia, fa i compiti a casa ed elabora il codice della crisi di impresa (CCII) per cercare di adattare, non senza difficoltà, quelle regole alla realtà locale fatta di tante micro e piccole imprese poco attrezzate.

Poi, ci sono gli  antagonisti. Ovviamente il  sistema bancario  che dopo aver inondato di liquidità le imprese nel periodo Covid, su ordine del protagonista Ue, con circa 350 miliardi di finanziamenti grazie alla garanzia del coprotagonista Stato Italiano, cambia ruolo. Da pilota dell’elicopter money, distributore di felicità a costo zero, si trasforma in jack lo squartatore su ordine del protagonista.

Lo strumento è un insieme di regole, il Calendar Provisioning, impartite alle banche dalla Bce, braccio finanziario della Ue, affinché monitorino il malato impresa, sin dai primi sintomi di crisi, attraverso un corretto apprezzamento del rischio del finanziamento. In pratica la Bce dice alle banche: state all’erta! Le banche direttamente tramite uffici interni dedicati o affidandosi a servicer esterni, iniziano a stare all’erta cercando, appena possibile, di portare la pelle a casa, escutendo le generose garanzie rilasciate dallo Stato coprotagonista. Anche perché mentre le banche sono attente al cliente, per i servicer il cliente è la banca stessa e il business è l’incasso del credito, con o senza salvataggio del debitore.

Le prime vorrebbero salvare anche l’impresa/cliente, gli altri tendono solo a massimizzare l’incasso. Ed ecco che lo Stato, consapevole del rischio di perdere i soldi pagando al posto delle imprese, alterando l’ordine di distribuzione delle somme grazie ad un privilegio caduto dal cielo e conscio dei desiderata della Ue, rimette mano alle regole locali dettate con il codice della crisi. È vietato escutere immediatamente le garanzie, anzi bisogna continuare ad assistere le imprese in crisi e il giudice può addirittura vietare alle banche di riclassificare i crediti a rischio in modo da evitare il «fuggi fuggi» prima che la negoziazione fra tutti i creditori faccia il suo iter.

Si può sperare nella transazione fiscale anche nella Composizione negoziata, tranne per i contributi Inps e tributi locali per paura di indebolire troppo i rispettivi bilanci di questi Enti, non è abusiva concessione di credito finanziare le imprese in crisi e i servicer, se richiesto dal giudice, devono rinegoziare i crediti piuttosto che tendere ad incassarli.

Il coprotagonista Stato sembra dire alle banche: vedete voi come fare con gli obblighi che avete con la UE e il calendar provisioning; vedete voi come fare per continuare a sostenere finanziariamente le imprese. In sostanza, impone di partecipare al salvataggio. Però bacchetta anche le imprese, quelle che svolgono inconsapevolmente il ruolo delle vittime, affinché si muovano. Le imprese sono state già avvertite con l’adeguamento dell’art 2086 del codice civile; ora le risollecito con il correttivo dando loro un aiuto in più. Come? Si organizzino con adeguati assetti amministrativi che gli permettano di cogliere i primi sintomi di crisi e vadano in Camera di Commercio a chiedere che un esperto le aiuti ad uscire dalla crisi.

Ed ecco sulla scena un altro antagonista inconsapevole: l’esperto della crisi. Questo, dipinto come il «manager della crisi», in grado di dettare la strada del risanamento all’impresa accompagnandola e guidandola, spesso si dimostra piuttosto il notaio che certifica la crisi, senza incidere. Troppo attendo più a non fare danni a sé e ai creditori in vista della inevitabile procedura concorsuale successiva che dedito a comprendere l’impresa, ristrutturarla e farla ripartire.

È anche vero che è aiutato in questo «gioco del nulla» dalle imprese stesse che troppo spesso, come la bella addormentata, si svegliano tardi, ormai sull’orlo del precipizio. Ma certo, se il coprotagonista Stato si affretta a fare il correttivo per aggiungere che alla Composizione Negoziata possano accedere le imprese «anche soltanto in stato di squilibrio» significa che non serve muoversi immediatamente, si può attendere oltre, fino alla manifestazione dell’insolvenza. Se poi contemporaneamente permette il pagamento dilazionato dell’Iva incassata e delle ritenute su lavoro dipendente e autonomo esercitate e non versate fino a 7 anni, il segnale appare un po’ confuso. E allora le  imprese  legittimamente, sempre poco propense a far emergere per pudore e convenienza i primi segnali di crisi, si chiedono se veramente serva spendere soldi e tempo per dotarsi degli adeguati assetti.

Per spingerle a farlo peraltro sembra non bastare solo il bastone della responsabilità sugli organi di governance in caso di inattività e default successivo; tanto, sembrano pensare le imprese, il rischio è il mio mestiere. Che poi le banche, per ordine Ue, mi tolgono pure il respiro! Chi me lo fa fare? E il sistema si imballa alla ricerca di un finale, il risanamento dell’impresa in crisi, sempre più ipotetico e lontano.

Ma come se ne esce? Se ne esce solo se le vittime, a cui è stato lanciato il salvagente, passano dal ruolo di vittima a quello di protagoniste. E cioè se ne esce solo se le imprese evolvono e si organizzano mettendo tutti d’accordo: Ue, Stato, banche, esperti e contesto economico intero con vantaggio in termini di PIL di tutti noi. Del resto gli strumenti ci sono tutti e tutti gli attori, anche quelli nuovi pronti a finanziare la ristrutturazione, sono pronti a recitare la propria parte.

Il lieto fine di questo sequel si chiama «adeguati assetti amministrativi». Consiste in una analisi preventiva dello status quo dell’impresa, individuazione dei punti di forza e debolezza, verifica dell’adeguatezza della strategia, programmazione e controllo periodico. Le imprese lo devono fare nel loro interesse, nell’interesse di tutti che ormai hanno riconosciuto all’azienda lo status di «bene tutelato», come i panda, lo devono fare per mettere fine a questo sequel. Sperando che sia l’ultima puntata.



 

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